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RITA REMAGNINO

NESSUNA EREDITA’

Cosa lasceremo ai posteri, ve lo siete mai chiesti? Un’intera isola, o continente, di rifiuti. Come nel romanzo Underworld, dove il protagonista assoluto del testo è la spazzatura. L’immensa scia di detriti che il pasto dell’Occidente lascia sul pianeta, allungando le mani sul piatto degli altri, difendendo con i gomiti il proprio posto a tavola. Sarebbe inutile avviare il solito discorso dell’opulenza dell’Occidente, la faccenda ormai non è più ideologica, ma molto concreta: la spazzatura e la sovrapproduzione sono un dato di fatto. Non a caso i protagonisti del romanzo di De Lillo sono una vecchia palla da baseball, un negozio stipato di gadget e oggetti impolverati, l’immensa collina dei rifiuti luccicanti al sole, assediati dai gabbiani, un assorbente attaccato agli slip, un vecchio giocattolo, un libro dimenticato.

 

Ogni oggetto a cui noi deleghiamo la definizione della nostra identità finirà prima o poi in quel cumulo, che per qualcuno è stato un’occasione di guadagno ma che per l’umanità è una disgrazia. I posteri penseranno di noi che siamo stati una «civiltà inutile», superflua come gli oggetti ai quali abbiamo affidato la nostra identità. Tutta roba fatta in serie, di cui non si sentiva neppure il bisogno. Mai come adesso il rapporto tra averi e identità è stato così malato: basta guardare i tanti oggetti conservati nei musei che ancora ci guardano, mentre i nostri non guarderanno nessuno perché, semplicemente, non ci saranno più.

 

Nell’antichità era invece diffusa l’idea che un oggetto potesse essere talmente potente da conservare dentro di sé la personalità di chi l’aveva usato o portato con valore, esprimendo la cultura umana di appartenenza. Così è stato, finché gli oggetti hanno mantenuto la loro identità; poi la produzione industriale scardinò progressivamente questo meccanismo culturale e anche l’oggetto più prezioso finì per rientrare nel ciclo produttivo, anch’esso destinato ad essere smembrato per diventare spazzatura.

 

Al posto di parlare di «oggetti» si cominciò dunque a parlare più correttamente di «averi», nel senso che il valore economico di una cosa veniva trasferito all’acquisto di quella successiva, fosse essa un armadio, un abito nuovo, una collana o una casa. Offrendo in permuta il vecchio «avere» e aggiungendo la differenza in denaro, si otteneva in cambio la sua nuova incarnazione. L’acquisto precedente riguardava, dopotutto, un’«idea» di quella cosa, ormai superata, nient’altro che una marca, o uno stile, e non lo specifico oggetto. Niente che valesse la pena di essere tramandato ai posteri.

 

Ma se gli averi non erano più oggetti, che fine aveva fatto l’identità del possessore? Sciolta anch’essa nella società fluida, che tutto travolge e trascina. Tanto valeva, a quel punto, non avere niente di tutto. Seguendo lo stesso ragionamento si poteva rinunciare a uno stipendio più cospicuo in cambio di tempo, al prestigio di un ruolo in cambio di rapporti più frequenti con le persone, alla sicurezza del futuro in cambio della libertà di cambiare idea. Si poteva, insomma, rinunciare a tutto, persino a se stessi.

 

Ed ecco apparire l’uovo di Colombo: la sharing economy, emblema della vita in affitto, dell’esistenza on demand, che attualmente sta trasformando la società in una colossale ditta di noleggio. Tutto deve essere a portata di mano, anzi di clic. Con un numero di carta prepagata si può avere tutto, visto e piaciuto, con la raccomandazione sottintesa di sbarazzarsene in fretta poiché subito dopo si ha l’obbligo di desiderare qualcos’altro. Nel giro di pochi anni non avremo più nulla da lasciare in eredità ai nostri figli e nipoti? E chi se ne importa, tanto avrebbero gettato via i nostri oggetti lo stesso. Ciò che conta è il gruzzoletto, quando c’è; persino i regali a battesimi, compleanni e matrimoni, oggi si fanno in soldi, per evitare l’imbarazzo di avere qualcosa o qualcuno da ricordare in futuro.

 

Non solo non ci rendiamo conto che prendere a nolo qualunque cosa ci sta velocemente impoverendo sotto tutti gli aspetti, ma nutriamo l’illusione del contrario; e qui, bisogna riconoscere l’abilità di vecchie e nuove multinazionali che hanno inventato la formula perfetta per creare modi di consumo sempre diversi. L’idea che i padroni del mondo – e innanzitutto dei nostri cervelli – stanno facendo passare a reti unificate è che il concetto di proprietà, o possesso, è roba d’altri tempi. Forza, sembrano dire, modernizzati: basta una app per semplificarti la vita! E nel contempo nientificarla, ma questo non si dice.

 

Un discorso che vale, ovviamente, per la massa: mentre le persone comuni rinunciano alla proprietà il grande capitalismo sta diventando padrone di tutto. Anzi, iperpadrone. Gli altri vendono, loro comprano. Muovendosi sottotraccia sono riusciti a forgiare un’umanità in cui il desiderio di possedere e costruire ha infine lasciato il posto a quello di utilizzare, e adesso ne raccolgono i frutti. Volevano una società di «utenti» il cui simbolo fosse la figura opaca del consumatore, e l’hanno avuta. Ma l’idea di lavorare per ottenere qualcosa di proprio, di stabile, che resista al tempo e oltrepassi le generazioni è da sempre una costante dell’uomo. Vorrebbero espropriarci anche di questa, non è detto però che ci riescano. Forse l’umanità si troverà un giorno (s)travolta dalla nostalgia. E lì si riscoprirà umana.

RITA REMAGNINO

12 Mag 2018 in Senza categoria

4 commenti

Commenti

  • …..go da es pròpe ‘n andeghè, Rita!
    Io mi sento addosso proprio il problema contrario: troppa roba conservata da sempre che…. se mi pigliasse un coccolone adesso (e lo esorcizzo subito, continuando a scrivere!) arriverebbe …..”sulle gobbe” del povero Pietro!
    Si, l’educazione della Nonna Angelina “….non fare così che lo consumi / appena hai finito di usarlo puliscilo e mettilo via / chi più spende meno spende….” ed è quello, che si è radicato nei miei comportamenti!
    E oggi pomeriggio ho lavorato 3 ore per farmi, con le mie manine sante, una porta/zanzariera per respirare in camera da letto, adesso che viene il caldo!
    Certo, è più che vero il quadro desolante che tu hai dipinto, purtroppo, ma, al solito basterebbe un “just do it” detto davanti allo specchio da ognuno di noi!
    Ma siamo in pochi ad avere il coraggio, la capacità , la voglia di guardarci allo specchio, di farci domande e darci risposte sensate!
    E i “cattivi maestri” sono pure troppi e dannatamente organizzati ed efficaci, anche (e soprattutto) senza che nemmeno ce ne accogiamo!
    Francamente fatico a prefigurarmi il domani.
    Figurarsi il dopodomani!
    E allora, vado avanti con il “manuale” di Nonna Angelina!

  • Di sicuro con gli anni che passano si ha bisogno di sempre meno cose. Un amico che ha deciso di “alleggerirsi” l’anno scorso ha messo una bancarella al mercatino di Castelleone, e poi ha detto di sentirsi meglio. Ma non è questo il punto. Un conto sono le decisioni personali, altra storia che qualcuno abbia deciso senza il tuo consenso di fare della tua vita una ditta di noleggio per arricchire se stesso. Qui c’è del marcio, è chiaro.

    Tristissimo anche che gli oggetti d’affezione non passino più da una generazione all’altra, che al posto del “ricordino” ti arrivino cinquanta euro in mano (anche la busta è passata di moda) o un buono sconto di Zalando, che con te in vacanza non ci vengo però ti regalo una smart box, eccetera.

    E avremmo anche il coraggio di lamentarci di aver messo al mondo una generazione di disagiati mentali che una ne pensa e cento ne fa? Temo che in una situazione così generalizzata ci vogliano decisioni altrettanto generalizzate. Non basta un “just do it” detto davanti allo specchio, perché in tanti hanno portato in discarica anche lo specchio. Si guardano nello smartphone.

  • Mi permetto solo, Rita, una noticella.
    La cosiddetta sharing economy (per quanto ne so) è nata negli anni della crisi e rispondeva a un bisogno di “arrotondare” il proprio reddito: da qui la messa in condivisione di stanze e di automobili.
    Un’idea buona ma che poi ha generato dei veri e propri colossi economico-finanziari che hanno lucrato sulla “mediazione” (da Airbnb a Uber).
    Io mi auguro che l’evoluzione della blockchain riesca a evitare la mediazione e faccia crollare i colossi di cui prima.

    Vedo in modo positivo l’idea di non brevettare, ma di mettere in condivisione (open source) sistemi operativi, software anche sofisticati: un modo di fare che, di fatto, ha la potenzialità di moltiplicare il numero degli innovatori.
    Mi aspetto (ma ci vorrà molta strada da percorrere) una rivoluzione contro altri colossi quali Google, Amazon, Facebook…

  • Non so se la sharing economy sia un’opportunità o l’ennesimo inganno neocapitalista. Tu stesso, Piero, sottolinei giustamente il fatto che è nata per lanciare un nuovo modello basato sul riuso, il riutilizzo, il noleggio e la condivisione di beni e servizi, ed è finita per partorire mostri. L’esperienza comunque insegna che se qualcosa è gratis, ovvero a bassissimo costo, significa che il prodotto siamo noi: la nostra vita, gusti, idee, propensioni, che viene profilata e venduta per i più vari interessi. La dimostrazione è nelle vicende relative alla compravendita dei dati di milioni di utenti da parte delle piattaforme digitali e dei mezzi di comunicazione in rete (Facebook, Google). E occhio: quello che internet ha fatto con le informazioni la Blockchain lo farà con le transazioni.

    Un tempo la moneta era legata ad un controvalore in oro , ma dopo la grande crisi del 1929 il controvalore ha cominciato ad essere dettato da chi stampava soldi, fino ad arrivare alle cryptovalute determinate da un algoritmo. O meglio, dal progetto che vi sta dietro. Quindi la domanda è: la cryptovaluta dà valore al progetto o il progetto dà valore alla cryptovaluta?

    Il rischio è altissimo, inutile negarlo. Con ogni probabilità tutto verrà ricondotto al gran mare del profitto, nell’assenza dei poteri pubblici, obiettivamente in difficoltà ad intervenire nell’ambito di una rete sempre più complessa, deterritorializzata, priva di regole , dotata di nodi e connessioni sempre più potenti. E di “liberi battitori”. Meglio non fidarsi.

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