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RITA REMAGNINO

Il racconto della Storia

Tra le cause che portarono alla caduta dell’Impero Romano vi furono senz’altro il crollo demografico (come nell’Europa di oggi) e il problema dei legionari (gli odierni sfruttati dal mercato del lavoro), i quali, tornati a casa dopo anni di guerre, mal si adattavano a una condizione di lavoratori che, quanto a profitto, erano equiparati ai servi.
Nessuno meglio di noi può comprendere queste ragioni.
Nel frattempo erano venute meno anche le virtù stoiche della pietas, della fidelitas e della res publica, proprie delle élites. Nelle classi alte l’edonismo si diffondeva a macchia d’olio, i figli erano una palla al piede per cui dilagava la contraccezione, insieme al concubinaggio, al divorzio e all’omosessualità. Augusto dovette, ad un certo punto, emanare leggi contro il celibato per scongiurare lo spopolamento.
Sembra un quadro di arte contemporanea.

Le regioni di confine erano divenute lande semivuote, una tentazione fortissima per i «barbari» che spingevano dall’altra parte. Qualcuno ebbe allora la brillante idea di arruolarli: ammessi ai benefici della civiltà romana, ci avrebbero pensato loro a difendere le frontiere.
Integrazione riuscita? Nient’affatto. Ci si ritrovò, anzi, con intere legioni composte da barbari, in pratica metà dell’esercito era di origine germanica e si sentiva più affine a quelli che doveva combattere che a quelli che era pagata per difendere. Non ci volle molto prima che i soldati cominciassero a chiedersi perché mai avrebbero dovuto obbedire ai generali romani e non ai loro capi naturali, altrettanto validi ed autorevoli, e da questa logica conseguenza cominciò tutta una serie di guai.

Per far fronte al mancato introito dovuto alla denatalità il fisco aveva aumentato nel frattempo le tasse, aggravando ulteriormente le tensioni sociali poiché gli schiavi (il 35% della popolazione), che per legge non erano arruolabili, non le pagavano. Finì così che molti piccoli proprietari, costretti dalla pressione fiscale ad abbandonare i loro campi, divennero latrones cessando definitivamente di versare soldi all’erario e di amare una res publica opprimente e affamante.
Quando Costantino capì l’entità del disastro e cercò di correre ai ripari era ormai troppo tardi. Una mentalità incistata e diffusa si opponeva strenuamente all’Impero, il multiculturalismo di Roma era divenuto sinonimo di confusione sociale e le antiche casate aristocratiche che avrebbero potuto guidare il popolo erano praticamente estinte.

Solo una cosa può estinguere una civiltà, diceva Arnold Toynbee: il suicidio.
Accade quando nessuno crede più all’idea di chi l’aveva edificata.

Questa retrospezione che riguarda la caduta dell’Impero Romano suona quasi famigliare poiché ha qualcosa dell’Europa di oggi. Con una differenza: i Germani che migrarono nel tardo Impero, pur disprezzando la mollezza dei Romani della decadenza, ammiravano e rispettavano la loro civiltà; mentre la massa di immigrati che si riversa incessantemente sulle coste italiane, e marginalmente in Europa, non solo non prova questo rispetto ma in molti casi disprezza la civiltà occidentale.

Persino l’imperativo assoluto degli ultimi anni – “bisogna condividere!” – che ha avuto fortuna nell’ambito del cosiddetto catto-comunismo e, in buona sostanza, rinvia all’adesione e partecipazione a sentimenti altrui, allo stare a sentire all’altro, appare oggi usurato, abusato, svuotato di significato.
Mai come negli ultimi cinquant’anni la comunità umana è apparsa tanto priva di fini condivisi. Ognuno fa per sé, per il suo portafoglio. Un fatto che può essere compreso tra gli effetti del processo di desacralizzazione e reificazione del mondo che ha spianato la strada all’affermarsi di quell’individualismo colpevole di aver fatto dell’uomo un frustrato che piange in solitudine, sia dinnanzi all’infinito abisso che lo separa dal divino che di fronte ai suoi simili. In mancanza di (alti) fini condivisi, gli uomini non possono sentirsi solidali fra di loro.

RITA REMAGNINO

04 Apr 2018 in Cultura

23 commenti

Commenti

  • Forse, Rita, c’entra anche la desacralizzazione del mondo come tu sostieni, ma di sicuro siamo di fronte a una cultura che si è sempre più imposta, quella “liberale”, o meglio a una degenerazione del liberalismo che ha enfatizzato i “diritti” degli individui a scapito dei “doveri”, gli interessi “privati” a scapito di quello che viene chiamato “interesse generale” o, meglio, interesse di tutti, interesse della “comunità”.

    L’atomizzazione della società è un fenomeno che pare destinato a crescere in modo impetuoso: con l’imporsi delle tecnologie digitali, il lavoro sarà sempre meno in un “luogo fisico” (ogni lavoratore digitale potrà lavorare isolatamente ovunque, anche in vacanza) e Amazon sempre più ci sta privando del piacere di uscire di casa per fare la spesa (e uscire di casa significa anche opportunità di incontri).

    Non parliamo poi del modello che arriva dal Giappone: anziani che saranno sempre più assistiti non da persone ma da androidi!

  • La mia domanda, infatti, è: se non ci sono “fini condivisi” che vadano al di là dello sforzo individuale di agguantare una briciola di potere e goderselo fino in fondo, come si fa a parlare di “interesse generale” o della “comunità”?

    Il fine condiviso dell’Italia di oggi, quale sarebbe?
    E quello dell’Europa?

    Oggi la gente “non ci sta” più perché non vede all’orizzonte un obiettivo comune. Un fine condiviso, appunto. E’ la situazione tipica, come c’insegna la Storia, di ogni vigilia di caduta di un impero. Lo spettacolo penoso a cui assistiamo in queste settimane messo in scena dai politicanti che s’azzuffano non per un programma, un’idea, ma per “occupare dei posti”, lo abbiamo già visto in Spagna e Germania, e non solo lì. Lo sfascio, a onor del vero, è condiviso. Ma tutta questa gente che vive a palazzo, quale “causa comune” sta portando avanti? Qualcuno l’ha capito?

    Qui bisogna uscire dall’impasse il più velocemente possibile, per non lasciarci le penne. Domanda delle domande: come? Tirando il freno a mano, probabilmente. Se il “globale” non funziona, l’ha dimostrato, vorrà dire che ripartiremo dal “locale”, che non è un punto di arrivo ma di partenza. L’uomo è un essere finito, deve avere dei limiti, delle regole, dei confini, deve riconoscersi in qualcosa o in qualcuno per non impazzire, altrimenti succede quello che oggi sta avvenendo: il caos. Abbiamo sotto gli occhi l’esempio di Londra, culla mondiale della filosofia liberista, sempre più accelerata, più smart e multietnica, più multitutto, una babele dichiarata che ha appena vinto l’oscar di città più violenta del pianeta, addirittura sorpassando New York, che è tutto dire.

    Siamo sempre convinti che il caos possa essere “governato” (non si sa bene da chi), o umilmente accettiamo l’idea che il “grande progetto” è scappato di mano ai suoi creatori e bisogna fermare il calcinculo prima che i seggiolini schizzino via andando a sfracellarsi chissà dove?

    Le intelligenze artificiali non verranno a soccorrerci, perché nel frattempo si sarà spenta la luce.

  • Mattia, perchè quando batto un colpo, il sistema ne fa due?
    L’intelligenza virtuale è troppo intelligente e straripa?

  • Rita, uscito dal dubbio …”repetita iuvant”, gordianamente ne ho tagliato uno!
    Nel merito: l’immagine (influsso della fiera di santa maria?!?) del calcinculo che schizza via per mancanza di sufficiente forza centripeta applicata ai seggiolini, mi pare tremendamente efficace!
    Ma, 1) chi e dove è al governo dell’apparato che fa girare la giostra? 2) E se per ipotesi (ragionamento “per assurdo”) si riuscisse a individuarlo, come mettere assieme le forze per poter mettere le mani sulle leve?
    Credo nella virtuosità del “ripartire dal locale” (uso le tue stesse parole), da ciò per cui abbiamo le “unità di misura” (mi ripeto, lo so, ma è perchè ci credo) , che non vuole assolutamente dire ….crogiolarsi nella (magari becera) ignoranza, ma , al contrario avendo “studiato e capito” le cause prime, operare per disapplicarne gli effetti a livello “locale”.
    Certo, serve pazienza, anche e soprattutto in questa fase così delicata di gestione del cambiamento imposto dallo scontento espresso dal voto ( e davvero non ci avrei proprio scommesso sulla partecipazione elettorale concretizzatasi civilmente nei seggi) della maggioranza dei cittadini.
    Il sistema democratico, che nel “buffo stivale” è ben lungi dall’aver raggiunto un assetto di funzionamento che consenta automatismi rapidi ed efficaci nel superare gli snodi nei quali si articola, impone tempi medio lunghi per passare dalla fase “campagna elettorale” a quella operativa del riempimento delle “caselle” che governano il sitema operativo.
    Sono i “tempi tecnici” dell democrazia, bellezza!
    Il signor Erdogan è certo più “operativo” ( peto veniam per l’eufmismo estremo!) ma non ci penserei nemmeno a fare cambio!

  • Bel pezzo, Rita. Il barbaro di ieri è il civilizzato di oggi. Il civilizzato è un barbaro che ha avuto successo. Gli altri che falliscono sono i barbari rimasti tali. Non so se le civiltà si costruiscano con santi, pacifisti e bravi ragazzi. E non invece con delinquenti, banditi, assassini di guerra e violenti d’indole e destino. I fondatori di istituzioni spesso non seguono i maestri di giustizia ma di menzogna. I primi decorano gli edifici costruiti dai secondi. Le civiltà sono imparagonabili. Ma hai ragione, hanno in comune il dispiegarsi e poi lo spegnersi del loro potere. È un ciclo di sviluppo e di regresso, un processo storico eternamente ricorrente, una etologia planetaria che mette le forze dei popoli e delle nazioni in competizione tra loro, tra una parentesi e l’altra di alleanze, federazioni e organizzazioni sovranazionali destinate a soccombere periodicamente alla spinta, all’impulso, alla forza di nuove realtà. Non si vince sfoderando la verità più vera o la giustizia più giusta ma la forza più forte. E la forza ignora il bene e il male. Quando la forza vince, ciò che ha vinto viene chiamato bene, ciò che ha perso male. Quando una civiltà declina, ciò che è vinto passa nel campo del male. E viceversa.

    Il “transumanesimo”, per usare un concetto oggi tornato in voga ma elaborato dal 1980 a Los Angeles da alcuni docenti dell’Università della California, ci mostra il prossimo mondo in cui il prossimo uomo vivrà, ritrovandosi molto diverso da noi. Un uomo felice, di una felicità preconfezionata, standard e non rinunciabile nei suoi connotati cogenti. Già nel 1996 Samuel Huntington, nel suo “Scontro delle civiltà”, aveva diagnosticato la fine degli ordinamenti statali novecenteschi, che non controllano più la moneta, le idee, la tecnologia e la circolazione dei beni e delle persone; l’esplosione dei conflitti etnici, tribali e religiosi; l’espansione del fanatismo terroristico; l’emergere delle lobby economiche, delle mafie internazionali e delle associazioni criminali; la sostituzione dei paradigmi statali con nebulosi, caotici e fallimentari paradigmi confederativi; la migrazione sul pianeta di milioni di rifugiati economici e invasori demografici.

    La verità, la validità e il senso stesso della politica non saranno più da pensare in rapporto alla città greca di Platone, all’Utopia di Thomas More, al Principe di Machiavelli, al contratto sociale di Rousseau, al liberalismo di Montesquieu, alla democrazia di Tocqueville, al comunismo di Marx. Ma a due romanzi britannici che, in pieno Novecento, raccontano già tutto sulla società del controllo e del “transumanesimo”, sull’imminente civiltà deterritorializzata e globalizzata: “Il Mondo Nuovo” di Aldous Huxley e “1984” di George Orwell. Dopodiché, l’ennesima spinta della volontà di potenza umana, della forza della specie porterà al collasso e forse ad una sopravvivenza basata su nuove forme di schiavitù delle masse o su “caste”, come dice Adriano. Allora, le dittature del secolo scorso sembreranno inezie al confronto. Tutto quanto detto in questo commento è un riassunto da “Decadenza” di Michel Onfray, soprattutto della parte conclusiva. Non so se crederci. Di sicuro non mi piace. Come possiamo evitarlo?

  • A Francesco. Come dicevo, mi pare comunque che anche tu sia d’accordo, il “locale” non è un punto di arrivo ma di partenza: la prima volta che abbiamo messo in moto la macchina siamo andati a sbattere, magari la seconda potremmo stare più attenti. Finire i nostri giorni nel globalismo economico, mentale e culturale, equivale a suicidarsi. Tanto vale tornare indietro di un passo e ricominciare daccapo, chissà che non vada meglio. Anche perché pensare di “governare” una macchina completamente fuori controllo più che un’utopia è una follia.

    Naturalmente il “locale” funziona solo se c’è condivisione e, soprattutto, un obiettivo comune. Esempio banale: cosa vogliamo fare nei prossimi quattro anni per la città di Crema? Tre cose: ferrovia, recupero area Stalloni, un vero polo culturale. A parte la gestione ordinaria, bisogna lavorare soltanto su quello: andare in mezzo alla gente, spiegare i progetti e raccogliere le idee. Parola d’ordine: condivisione.
    Qualcuno lo fa? No.
    Non solo a Crema, sia chiaro, ma dappertutto. In ogni Comune d’Italia quando uno va a fare l’assessore o il sindaco segue le sue inclinazioni personali e cerca di realizzare i suoi sogni nel cassetto. Spero di non offendere nessuno se dico: ma chi se ne frega!
    Stanno facendo la stessa anche a Roma: con quello non parlo, a quell’altro tengo il muso, con questo qui gioco solo se mi fa vincere. Parlare di “umanità bambina” è un complimento.

  • A Pietro. Le civiltà che si costruiscono con “delinquenti, banditi, assassini di guerra e violenti d’indole e destino” poi fanno la fine dell’America, dove quando non sono in guerra con qualcuno si sparano tra di loro. Buon sangue non mente?
    Da qualche secolo a questa parte siamo così confusi quando si parla di “bene” e “male” che per tagliare la testa al toro abbiamo messo in campo il “giusto”: non sapendo noi distinguere i due aspetti, abbiamo affidato il compito di decidere a cavillose leggi che magari non metteranno le cose a posto però scrivono la parola “fine” in calce al problema. Caso risolto. Stop. Avanti un altro.

    Fare previsioni per il futuro in un momento come questo è impossibile, non abbiamo la testa per farlo. Manca soprattutto la Coscienza. Di sicuro dovremmo cambiare atteggiamento verso tutto ciò che è Storia e Tradizione (quella con la “t” maiuscola), non fosse altro che per non fare la fine di Galadriel, nella scena iniziale del film Il Signore degli Anelli, la cui voce narrante dice sommessamente “buona parte di quanto oggi riteniamo abbia valore andrà perduta per sempre perché non sarà in vita nessuno che potrà averne memoria”. Una frase indimenticabile perché vera, o vera perché indimenticabile, fai tu.

  • L’esempio yankee dello spararsi reciprocamente in casa propria, nei periodi in cui non si va a sparare agli altri in casa loro, a tutti gli effetti, è davvero perfetto. Infatti, da migliaia di anni le comunità organizzate fanno la guerra non solo per vincere in casa d’altri ma anche per evitare lotte interne pregiudizievoli per lo sviluppo, il senso di identità e il sentimento di appartenenza dei consociati in casa propria. Come dire, è normale che se non ti sfoghi con quelli lontani ti sfoghi con questi vicini. Perché l’aggressività e la violenza, per la nostra specie, non sono un optional. E non solo per la nostra.

    Che certe dinamiche biologiche siano in Europa dissimulate da portati culturali, etici e religiosi è un fatto. Ma che negli altri continenti le culture, le morali e le religioni siano diverse è un altro fatto. Siamo settecento milioni su sette miliardi e mezzo. Con questo non voglio dire che fuori dall’Europa viga la regola generale della guerra di tutti contro tutti e dell’ammazzarne uno al giorno così si toglie il medico di torno. Dico che il “racconto della storia” non è solo quello a cui siamo abituati nei nostri pacifici tinelli e nei nostri salotti perbene, arrovellandoci perché Martina non ci sta, Di Maio dipende, Berlusconi eccome e Salvini vedremo.

    Tre quarti di secolo senza guerre sono una benedizione, non la regola, né qui né altrove, né oggi né mai. In Europa abbiamo quindi il diverso problema, non avendo al momento il problema della guerra, di trovare altri e più pacifici fini condivisi ed elementi unificanti sostituivi di identità e appartenenza. Le difficoltà europee in tal senso sono evidenti, purtroppo. In Italia, basterebbe guardarsi in giro. Di cose importanti da condividere ne avremmo parecchie. E il nostro fine essenziale sarebbe di non scomparire.

  • “Il racconto della Storia”, a mio modo di vedere, può essere inteso solo nel senso indicato da Giano bifronte, il «Signore del triplice tempo». Per esistere, anzi, per essere, una civiltà ha bisogno di un passato e di un futuro che diano sostanza al presente: il primo è memoria e il secondo è attesa. Vivi l’attimo presente senza dimenticare il passato che ti ha preceduto e pensa al futuro delle tue azioni, insegnava il buon Giano; che da una parte mostrava la manifestazione del divino e dall’altra la saggezza antica di chi deve scrutare nell’invisibile, nella veggenza che anticipa il futuro. Vedere il passato che va verso il futuro ma anche il futuro che ricorda il passato, era la sua arte. Un tecnica che oggi dovremmo fare nostra, se siamo furbi. Sennò, amen.

    Sulla benedizione dei “tre quarti di secolo senza guerre” ci sarebbe molto da dire, visto che dalla fine dell’ultimo conflitto mondiale gli europei sono impegnati in missioni belliche in giro per il mondo che hanno fatto “solo” cinquanta milioni di morti. Si chiama così la pace? Come altro possono essere definite le incursioni terrestri e i bombardamenti aerei della “coalizione”? E non è guerra quella dichiarata dalle élite finanziarie contro i popoli? Non c’è solo la guerra che spara, c’è anche quella che uccide senza sparare, grazie alla tecnologia oggi si può fare anche questo.

    A questa Europa che a ruota degli “alleati” va a fare le guerre altrove (è più igienico, non si sporca in casa) manca comunque sostanza: condivisione, identità, fini comuni, obiettivi e progetti nell’interesse del Paese. Ecco perché non piace.

  • Eppure mi sembra che a livello di popoli , sara per cultura, comunicazione ,viaggi,
    ci si comprenda di più.

  • P.S.
    Bella l’Arte del Giano Bifronte

  • Lo penso anch’io, Graziano. I popoli sono molto più saggi di chi li comanda, anche per questo motivo non sono affatto prevenuta nei confronti dei vituperati “populismi”, che spesso sono focolai di sana ribellione a uno status quo distruttivo e devastante. Non sempre sortiscono gli effetti sperati, ma stare fermi è sicuramente peggio.

    Purtroppo a partire dagli Anni ’70 si è provveduto a una sostituzione capillare della classe dirigente politica e industriale per fare in modo che al posto di controllo ci fossero persone facilmente malleabili e ricattabili (il danaro può tutto). Chi non stava al gioco veniva espulso automaticamente dal Sistema che, finalmente, dopo mezzo secolo è impazzito. Mica poteva durare per sempre. E’ il momento che le persone sane di cuore e di mente facciano un passo avanti. Ce ne sono più di quante riusciamo a immaginare.

  • Tu, Rita, sottolinei l’urgenza di risolvere un problema “locale” che è rappresentato dall’annosa quaestio della ferrovia, ma sai bene che tale problema si risolve andando “oltre il locale”, oltre perfino la Regione Lombardia.

  • Ragazzi sono fiero di essere in un gruppo di persone che scrivono così bene; o forse me ne accorgo solo ora?
    Vedrò di essere altrettanto chiaro: poco importa chi perderà e chi vincerà: certo l’Europa è il nostro nucleo di aggregazione più naturale, i confini asiatici pullulano di “cugini”, eppure anche il Mediterraneo è pregno di intelligenti fratellastri.
    Quanto conta è che siamo di fronte a un momento storico carico di energia. Anche le recenti squallide elezioni italiane ne sono un esempio: un grande colpo di spugna senza ripensamenti.
    E a questo punto mi torna in mente la biologia, personaggi come Luisi, Varela, e gli altri della scuola di Santiago, o Robert lanza (do qualche spunto di ricerca, non intendo che li dobbiate conoscere), ma anche il capostipite della linea di pensiero bio-geocentrico evolutivo: Teilhard de Chardin, e quello o conoscete!
    Ma siamo già oltre! Il mondo unificato ha già avuto il suo sistema nervoso nella rete, sua massima previsione, ora quello circolatorio nella blockchain (ci sono i motivi per questo paragone nutrizionistico globale), e quello muscolare unificato nella forza lavoro automatizzat-informatica.
    Ora sta per succedere qualcos’altro, il salto di qualità, la emergente ed imprevedibile qualità, la nuova facoltà, E NON ESISTE PRECEDENTE STORICO CHE CI POSSA DARE LUMI! Già, è la prima volta dopo la nascita del Sapiens.
    Mi viene in mente Nicolai Hartmann, fra i futurologi recenti, ma la profezia è antica. E allora, tradizioni, sangue e sofferenza, colori, non contano più, conta solo la trepidazione dell’attesa.
    A questo punto posso solo sperare che mi sia riservata una nuvoletta su cui affacciarmi fra qualche decennio per vedere come procede, ma non sono più mistico di quanti altri vi ho citato, ci credo scientificamente.
    Ma torniamo con i piedi per terra: certo, in attesa di una transizione bisogna oliar le ruote per guidare il cambiamento verso una dolce via, e allora l’impegno di tutti serve, serve Cremascolta, serve il dialogo, soprattutto l’ironia al posto della violenta contrapposizione, ma già vediamo con i nostri occhi, e altri sensi, che tuto questo brulicare di viaggiatori, esportazione di modelli, può essere ricondotto come paragone al mondo greco o romano, ma li trascende nella totalità.

  • I tre quarti di secolo in cui la pace è durata in Europa, sia pure con eccezioni come quelle della solita polveriera balcanica e di pochi altri focolai minori, sono un dato di fatto. Che ha contribuito a modificare la nostra scala di valori, le nostre abitudini, il nostro modo di pensare. Direi che è fattuale, se non mi venisse in mente Crozza. Che poi si siano mandati ben lontano da noi alcuni contingenti a fare una guerra chiamata pace, bene & umanità, questo è un altro fatto che non esclude il precedente.

    Il punto cruciale mi sembra, da quanto scrive Rita, quello degli scopi condivisi. Anzi, della possibilità di condividere ancora qualcosa che non si risolva in meccanismi consumistici indotti, mode e modelli esteriori, comportamenti compulsivi eterodiretti. Paradossalmente, per la nostra specie è più facile condividere degli scopi, intendo degli scopi veri e non degli obiettivi da country club, quando si è sotto pressione, quando si combatte, quando, per dirla tutta, si è in guerra. In pace, più o meno rilassati e tranquilli, o per lo meno col solo assillo dei crucci della quotidianità e della routine, è difficile condividere qualcosa che vada oltre i beni materiali. Certo, gli elogi della spiritualità, dell’ascesi, delle arti e delle conquiste intellettuali li conosciamo tutti. Poi, però, all’atto pratico, anche la maggior parte dei santi uomini spirituali, degli asceti puri e mondi, degli artisti, intellettuali e via dicendo cercano di condividere soprattutto il pane e il companatico. Il resto viene dopo. Nessuna novità. Basta saperlo e regolarsi.

    Temo quindi, Rita, che la nostra difficoltà a trovare fini condivisi in questo tempo di pace, invece che di guerra, stia diventando un problema notevole. Non addebitabile alle multinazionali, all’euro, ai mercati. Qui le società di rating e la perfida finanza non c’entrano. Il problema è come siamo fatti dentro. Fini condivisi? Basta osservare il balletto politico italiano di questi giorni: purtroppo, di fini condivisi questo minuetto ne lascia intravedere molti per i ballerini, pochi per gli italiani. Temo proprio che in tempo di pace, presto o tardi, quel che si riesca a condividere, come fine, scopo e risultato, sia innanzitutto l’utile, il proficuo, il comodo. Oggi, dopo secoli di sfruttamento, le masse vogliono condividere soprattutto i consumi, la “roba”. Meglio così, piuttosto che la guerra. Ma, oltre a ciò, il nostro livello evolutivo fatica a vedere, fare, capire. Così la pace, che dovrebbe rappresentare una nostra condizione di forza, rischia di apparire come una nostra condizione di debolezza agli occhi di popoli, culture e religioni in fase espansiva e di conquista.

  • Già, Adriano, ci vuole… dialogo, non contrapposizioni violente.
    La campagna elettorale è finita. Sembra che il dialogo si stia aprendo, ma non è così come pare: il dialogo non è apertura, ma solo tattica, solo un parlare a se stessi, al proprio elettorato o parlare per indebolire l’avversario.
    Abbiamo molti “valori condivisi”: è da qui che dobbiamo partire se davvero vogliamo pensare al “bene della comunità”. E per il resto… dialogare, dialogare, dialogare perché nessuno può pretendere di salvare il Paese da solo, tanto più quando i numeri sono quelli che sono emersi il 4 marzo.

  • Tuttavia sono elezioni dal risultato inedito! La turbolenza fa parte del dicorso che faremo domani alla riunione IPAZIA. Non cambia niente se siano uomini o numeri: insisto, se il limite si avvicina a una soglia citica succede qualcosa di imprevedibile, cioè emerge una nuova facoltà, e le condizioni sono queste! Staremo a vedere, anche se può essere doloroso, perché sta ucendo dallo scenaio della politica classica.

  • A Piero: ferrovia, recupero area Stalloni e un vero polo culturale erano solo tre esempi fra i tanti. Avrei potuto dire: dimezzamento dei parcheggi nel centro storico, lotta alla questua molesta (che sta crescendo in maniera esponenziale), basta alle potature selvagge. Per condivisione e risoluzione dei problemi “locali” intendo che le amministrazioni decentrate devono “stare sul pezzo”, sempre, e cercare di capire cosa vuole la comunità, non cosa vogliono loro. So anch’io che i treni sono regionali e le linee statali, ma non mi sembra che negli ultimi anni i politicanti cremaschi siano andati tutti i giorni a Milano o a Roma a perorare la causa, avranno avuto qualche colloquio, ma poi è finita lì. Chi non insiste non ottiene, soprattutto dall’apparato burocratico che cede solo per sfinimento.

    Cosa intendi per “abbiamo molti valori condivisi”. Ti riferisci all’Italia, o all’Europa? Puoi citarne alcuni?

    Le “contrapposizioni violente” le lasciamo agli idioti dei centri sociali. Il genere di “rottura” che auspichiamo è mentale, culturale, morale e spirituale. Bisogna cambiare verso, insomma. Cominciare a rompere i vecchi equilibri, tutti, uno per volta, con calma, affinché i nuovi vengano a galla. Niente di male può accaderci, perché il male è adesso.

  • Ad Adriano: è vero, siamo nel bel mezzo di un momento speciale e “non esiste precedente storico che possa dare lumi”. Ma se è vero che a nessuno arriva mai qualcosa che non sia in grado di sopportare, allora noi collocati in questo tempo siamo portatori sani del germe di uno spirito guerriero, e perciò dobbiamo combattere. Ora ti sembrerà che io stia dicendo una bestemmia ma, secondo me, siamo stati fortunati a capitare nel Kaliyuga perché ci stiamo avvicinando a una nuova origine. Peggio di così è impossibile, il domani può essere solo migliore. Grazie anche a idiozie come Facebook e alle relazioni virtuali che coinvolgono non più adolescenti ma milioni di adulti in tutto il mondo, altri inorriditi come noi da un simile degrado mentale e culturale troveranno in se stessi la forza di reagire, risalendo le pareti del pozzo in cui siamo finiti. Se ci fosse capitato un periodo migliore ce ne saremmo stati con le mani in mano, la necessità non avrebbe acuito il nostro ingegno e probabilmente saremmo morti senza sapere di cosa siamo capaci. Ma durante un Kaliyuga questo è impossibile perché l’indignazione è tale che da semplice onda ha buone probabilità di trasformarsi in tsunami. Nuotiamo non temendo di nuotare controcorrente.

  • A Pietro: non c’è dubbio che la “condivisione di uno scopo” venga meglio all’essere umano quando il suo gruppo/comunità di riferimento attraversa un brutto periodo; e noi, in Europa, oggi, non stiamo per niente bene. Non parlo ovviamente di condizioni materiali, nella media più che sufficienti, ma di uno stato mentale, morale e spirituale di estrema prostrazione. Dopo secoli di chiacchiere, forse è venuto il momento di fare qualcosa. Proviamo a pensare: quando le cose hanno cominciato a peggiorare? Più o meno da quando l’homo naturaliter è stato soppiantato da quello scientifico, tecnologico ed economico. Vuol dire che da lì dobbiamo riprendere il filo. Non è ovviamente un incitamento ad abbandonare la Tecnologia, il cui cammino è irreversibile, ma a starci molto attenti: questo strumento è come la candeggina, o l’ammoniaca, va maneggiato con cura. Serve a piccole dosi e non c’è ragione di doverne fare a meno, ma è necessario essere consapevoli che esiste il rischio di essere sopraffatti dalla «creatura» inventata e fare così la stessa fine del dottor Frankenstein.
    All’uomo dell’ultimo millennio, è mancato purtroppo il senso del limite. Subito si è sentito «super». Principalmente per ignoranza, perché non sapeva che alle sue spalle c’erano civiltà e culture ben più profonde ed evolute della sua che mai, e poi mai, si sarebbero sognate di creare macchine inquinanti e distruttive come quelle fatte da lui.

    Sul frontespizio del tempio di Delfi chi si dedicava al culto di Apollo, scrisse: “Mai niente di troppo”. Quelle sagge persone sapevano che il ciclo della Vita su questo pianeta sottostà a una regola spietata: tutto ricade sul successore. Cosa aspettiamo? Non può essere una meta condivisa da una piccola comunità quella di piantare alberi (invece di massacrarli!) per far sì che le prossime generazioni respirino meglio? E’ una metafora, chiaro, che sottintende una marea di cose che si possono fare, tante piccole cose, capaci di minare il Sistema dalle fondamenta.

  • Per tornare a Giano Bifronte,
    come s’impara la sua Arte ?
    Dando la pappa della tradizione da mangiare alla piantina ?

  • Mi verrebbe da dire, Graziano, che l’arte di Giano s’impara … con il cuore. La Tradizione è senz’altro una preziosa eredità, ma il vocabolo “tradizione” viene da “tradere”, che significa trasmissione ininterrotta e, oggettivamente, è un pezzo che il canale si è ostruito. Ma forse è proprio il discontinuum il fondamento della vera Tradizione, che risiede dentro l’uomo e tende a farlo volare oltre i suoi confini materiali nei cieli del sovrasensibile per ricondurlo infine, arricchito e migliorato, alla casa madre. Come specie sembrerebbe che abbiamo dimenticato sia gli antichi ritmi che gli equilibri, ma è solo apparenza, basterà poco per riportarli alla luce, perché quelle vibrazioni sono «già» nostre e giacciono assopite dentro di noi. Nel mio piccolo, per quanto può valere l’esempio, mi sono fatta una “triade divina” di riferimento: Mito-Tecnologia-Uomo, dove il Mito è la Madre per via del suo carattere originario che addirittura precede la Storia; la Tecnologia è il Padre che impugna l’«arma necessaria» per esplorare il futuro; l’Uomo è il Figlio che dispone dell’«intelligenza» necessaria a ri-comprendere che non tutto ci è consentito. Blasfemo? Mah, non so, però su di me funziona. Non voglio fare proseliti, sia chiaro.

  • Grazie Rita.

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