menu

LIVIO CADè

In attesa dell’ozio

Eccomi giunto dunque a celebrare per la sessantaduesima volta la festa del lavoro. Francamente non vi ho mai partecipato con grande entusiasmo. Quand’ero bambino ignoravo l’esistenza di questa terribile maledizione – il lavoro – che Dio ha scagliato sul genere umano. Poi ho intuito che il lavoro non era un comportamento naturale ma anzi qualcosa di radicalmente contro natura.

Crescendo, ho cercato in vari modi di convincermi del valore, dell’importanza e direi quasi della santità del lavoro, ma sempre senza successo. In questo credo che le Sacre scritture confortino la mia intuizione, dato che nei comandamenti divini non ve n’è alcuno che imponga all’uomo di lavorare. E ancora oggi considero il lavoro una patologia collettiva o, nei momenti di maggior condiscendenza, un male necessario.

Da parte mia, vorrei vivere in una repubblica fondata sull’ozio. Preferirei però un’anarchia temperata, utopia che vedo realizzabile da individui liberi che vivono in piccole comunità rette dalla legge della fratellanza, cioè dalla compassione e dalla collaborazione reciproca. Il lavoro sarebbe limitato al necessario per vivere e nessuno sarebbe pagato per farlo. Ma questo è ovviamente un sogno e ogni tentativo di metterlo in pratica si infrangerebbe contro la malvagità intrinseca della natura umana. Comunità più grandi e aggressive si farebbero un boccone di queste piccole isole di pace e ne costringerebbero gli oziosi abitanti, come schiavi, a lavori faticosi e insensati.

Perciò, nonostante la mia estrema riluttanza, ho dovuto infine cedere anch’io e adattarmi a una vita di umilianti compromessi. Per quanto mi sforzi di trovare senso e nobiltà in quello che faccio, non riesco a concepire il lavoro se non come una forma di prostituzione, a prescindere dal fatto che si trovi piacere nel prostituirsi e lo si faccia contro voglia. E ancora non riesco a liberarmi dall’idea che questo nostro ansioso affannarci sia conseguenza di un’antica colpa, ovvero di quel peccato originale cui ci ha condotto l’astuzia satanica.

Credo per altro che la malizia dell’Avversario non si sia fermata lì. Dopo aver causato la nostra caduta dal mondo dell’ozio, beato e benedetto, a quello doloroso e maledetto del lavoro, il Serpente ha fatto in modo di legarci alla sofferenza con lacci ancora più potenti. Infatti, la realtà del lavoro si lega a quella ancor più esecrabile del capitale, cioè dei beni che qualcuno accumula in conseguenza della sua fatica e, più spesso, di quella di altri.

Il capolavoro del Maligno è stato però il convertire i beni concreti, come mucche o pecore, in simboli astratti, come il denaro. Forse per questo qualcuno definì il denaro lo sterco del diavolo. Se c’è un limite alle mandrie e alle greggi e se pure l’oro e i diamanti non sono infiniti, non v’è alcun limite a un bene astratto. Bastava rendere il denaro non più simbolo di qualcosa ma simbolo di null’altro che di sé stesso e del proprio potere per rendere infinito il Male nel mondo. Così, attraverso l’onnipotenza diabolica della moneta, cioè di un valore immaginario, rischiamo di divenire schiavi del lavoro come nessun altro mai nella storia passata.

A questo punto, per stare coi piedi per terra e considerato che è impossibile per ora liberarci dalla maledizione del lavoro, inutile vagheggiare stati fondati sull’ozio, dovremo accontentarci di limitare i danni. Potremo al massimo confidare in quei sedicenti difensori dei diritti dei lavoratori, cioè in coloro che dicono di voler proteggere gli interessi di chi ha poco potere contro la prepotenza di chi ne ha tanto, troppo (e che, secondo il disegno del Male, ne avrà sempre di più, senza limiti). In passato, il compito di temperare le sperequazioni e le ingiustizie fu rivendicato dalla Chiesa e in seguito da alcune forze politiche e sindacali. Oggi, per quel che posso capire di questo mondo sottosopra, anche quei nobili propositi si sono persi e, sedotti dal Potere, si sono ridotti a semplici maschere per nascondere la realtà. Quel che non dobbiamo vedere è il dilagare della schiavitù e del servilismo da un lato e l’imperio di un’esigua minoranza dall’altro. A questa tragica situazione pare ormai non esservi rimedio. Possiamo poggiare le nostre timide speranze solo sulla consapevolezza che il Potere del Male, nella sua essenza, è immaginario, ossia dipende dalla nostra disponibilità a lasciarcene affascinare.

LIVIO CADè

01 Mag 2019 in Cultura

15 commenti

Commenti

  • Anche in questo caso il problema è lo Spirito assente. Lavorare è diventato oggi un’immane fatica mentale, non fisica, perché raramente si crede in ciò che si fa. Nell’antichità, invece, il senso ultimo del lavoro era «creare un’opera umana con intenzione», volontà, e infine elevare sè stessi a dio, inteso in senso sovraconfessionale. Sia che si trattasse di una costruzione architettonica, di una statua o di una collana, traspariva da qualsiasi opera il rapporto eterno tra uomo e dio, le cui voci dialogavano nell’anima.
    Nessuna opera era un tempo fine a se stessa perché la «buona intenzione» dell’artigiano-inventore veniva prima di ogni altra cosa. Ieri come oggi a fine giornata bisognava guadagnarsi la pagnotta, per cui un giusto compenso non faceva schifo a nessuno, ma questo aspetto era quasi secondario rispetto alla realizzazione dell’opera.

    Lo stesso non si può dire degli odierni prodotti umani, costituiti in larga parte dagli apparati tecnologici che devono rispondere alla regola: faccio-vendo-guadagno. Quand’anche un uomo d’ingegno oggi partisse da una vera intenzione, essa non giungerebbe mai ad essere una «buona intenzione» poiché ancor prima di «fare» bisogna «essere», e se non si è niente … si finisce con il dover ammettere che non è stata l’opera a «santificare» l’uomo bensì lui a «santificare» l’opera. Con il rischio concreto che queste «opere sante» comincino poi a brillare di luce propria e «scappino di mano».
    Cosa può salvarci, a questo punto? Un sano senso del limite: fermiamoci!
    Alla faccia della crescita a oltranza, una mostruosità in termini.

  • Sentivo ieri mattina su radio 3 la tetimonianza di un poeta/scrittore, che era progressivamente caduto preda di “sostanze” e alcool, che ha ritrovato se stesso e la voglia di vivere la sua vita, nel lavoro fisico (presso l’ospedale “Bambin Gesù”, con bambini affetti da gravissime malattie) più umile, di base, ri/scoprendo, in quel contesto di sofferenza di innocenti, il patto di solidarietà, di “mutuo soccorso” che nasce con i colleghi di lavoro, con i quali si è cementato un rapporto umano che si è mantenuto anche quando lui ha ripreso a coltivare la sua vocazione di poeta/scrittore.
    Anche io, ingegneremeccanicoconlemanisporchedigrasso, credo nel potere salvifico del “lavoro manuale”, con raggiungimento di obiettivi concreti, a breve, “toccabili”, reali, “che servano”.
    Mi piace ri/affermare i valori alla base della nostra Costituzione che proprio nel LAVORO individua le fondamenta della società civile.
    Proprio per questo, mi ripugna che proprio formazioni politiche epigoni di coloro che questa Costituzione hanno creato, conquistato, disperdano la loro azione in modo confuso e fuorviante, quand’anche ingannevolmente mirato a beceri interessi di parte.
    Dia/logo con Livio?
    Si, dia/logo con il bel pezzo (al solito) “In attesa dell’ozio” di Livio; molro “dia” e, per quel che posso per parte mia, anche “logo”!

  • È certo difficile indicare una causa unica dei problemi che oggi ci affliggono. Se fossi forzato a farlo, direi che questa causa è la perdita del senso del sacro. Tutto oggi congiura per evacuare ogni sacralità dalla vita, dall’amore, dalla ricerca intellettuale e da ogni attività umana, quindi anche dal lavoro. Alle parole d’ordine correnti, cioè “lavorare”, “produrre”, “consumare”, “crescere”, “studiare” ecc., io oppongo, non come contrordine ma come medicina, un ozio liberatore. Non certo la fannullaggine ma una sorta di non-fare taoista, cioè un agire secondo natura. Dobbiamo ritrovare la dimensione umana nel lavoro, nelle città, nelle famiglie. È una dimensione che nasce dalla consapevolezza del limite e che toglie valore di trascendenza a quelle realtà che oggi la rivendicano, come il denaro, il desiderio, il progresso tecnico-scientifico, restituendola al solo legittimo proprietario, cioè al Sacro. Dobbiamo quindi, secondo me, opporci alla schiavitù di un lavoro che ci aliena dalla nostra reale natura, che io credo divina, e ritrovare in noi la santità del lavoro. Io credo in un lavoro sacro, che è umile e pacifico. Sacro è il lavoro che risponde ai bisogni reali dell’uomo (non indotti da calcoli di mercato o da patologie sociali) e che reca beneficio al mondo con la sua creatività. Mi pare che il lavoro, nelle sue forme attuali, ne sia l’antitesi perfetta.

  • Come sai, Livio, l’ozio (nel senso nobile di cui tu parli) era il modello dell’ateniese “libero”, libero cioè dalla fatica del lavoro che veniva affidato allora agli schiavi: ecco perché il cittadino libero trovava gratificazione nell’esercizio dell’arte della politica, nell’assistere a opere teatrali, nel partecipare ai gioci.
    Un modello del genere (un tempo libero sempre più dilatato dalla introduzione sempre più spinta delle macchine nel mondo del lavoro da valorizzare come spazio per la realizzazione di sè, per l’espressione dell’eros e del gioco) è stato rilanciato negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso dal guru della contestazione, Herbert Marcuse.
    Oggi, secondo il sociologo Domenico De Masi, con l’era dei robot e dell’intelligenza artificiale, si stanno creando le condizioni perché l’ozio possa esprimersi in concreto.
    Personalmente, ho molti dubbi perché si così accadrà per alcune categorie di persone, non lo sarà per altre: pensiamo a tutti le professioni legate ai servizi alle persone che non saranno mai (forse) robotizzate.
    Anche se… in Giappone stanno investendo miliardi per creare robot-infermiere, robot-badanti (ciò che io ritengo come minimo osceno).

    Certo, se anche al fine di salvare il pianeta che stiamo avvelenando, si dovesse consumare di meno (e consumare tutti), lo spazio per l’ozio potrebbe ulteriormente dilatarsi.

    Già oggi l’orario di lavoro tende sempre più a ridursi (ho ben presente come si lavora in Germania).

    • Non alludevo a un ozio che sia privilegio di pochi mentre il lavoro lo fanno gli schiavi. E neppure a un mondo in cui tutti i problemi vengono risolti dalle macchine. La mia utopia ‘anarchico-comunista-taoista’, di una società libera dal miraggio della crescita e del progresso, sorda alle sirene del divenire e del potere-avere-sapere, senza padroni nè schiavi, è certamente un mostro chimerico per la mente moderna. Ma, dato che per grazia di Dio non sono un politico, posso permettermi il lusso di non pensare al PIL, allo Spread, alla BCE e ad altri mostri parimenti orrendi e di accarezzare la mie più umane chimere.

  • Ozio come ascolto del tempo che passa. E’ l’unico modo per sospenderlo. O rallentarlo, prima che ci scappi di mano. Non l’ozio pieno dei propri interessi, delle proprie passioni, che il tempo passa velocissimo. Quante volte si dice che la giornata, o i mesi o gli anni sono passati che non ce ne siamo accorti. Invece le giornate che ci sembrano noiose, dove si contano i minuti, le ore, può capitare, durano di più. Sono quelle che preferisco, e più invecchio più le apprezzo.

    • Forse è quello che, invecchiando, capita anche a me. Non è l’otium negotiosum degli antichi. È non aver nulla da fare e non cercare di riempire il vuoto con qualcosa di manuale o di intellettuale. Lasciarsi vivere dalla noia. Dopo quello dell’ozio si dovrà un giorno fare l’elogio della noia. Nel vuoto di desideri e di interessi si crea un dialogo silenzioso con la vita. Si smette di dire, di agire e di pensare, di fare progetti e di avere scopi, e si viene lentamente iniziati dall’ascolto del tempo che passa.

  • Ha visto che parliamo la stessa lingua? Lei ha ripetuto esattamente quello che ho scritto io. Signor Cade, lei è in copione.🙂😭😂🤣

    • …un…

  • Cari ragazzi, io all'”ascolto del tempo che passa” non sono ancora stata iniziata e per il momento la cosa non mi affascina. Sono, e resto, una donna faber. Mi fermo quando sto male, e già mi girano … al pensiero di quello che dovrò recuperare. Certo ho, come tutti, i miei momenti di riflessione, ma quelli non li considero “ozio”. Sono, anzi, i più produttivi.

    Non so se il “wu wei”, verso cui non ho nulla da eccepire, rientri nelle mie corde.

    • Eh, Rita, tu sei ancora una ragazza, certe cose non le puoi capire. Avresti dovuto vivere tra quei pellerossa che insegnavano ai bambini a stare seduti fermi per ore, senza fare o dire nulla. Che grande educazione all’ozio e alla noia! Altro che i nostri bambini iperattivi, sempre impegnati a fare qualcosa, a interagire con gli altri o a esprimere la loro creatività! Ovviamente ‘ozio’ e ‘noia’ vanno intesi qui in modo diverso dal senso comune.

    • Coi Pellerossa sarei stata sicuramente bene, peccato che gli europei li abbiano fatti fuori tutti. 150milioni di morti, questo fu un olocausto! Ma se insegnare l’immobilita’ a un bambino, che ha l’argento vivo addosso, puo’ essere un ottimo addestramento al rispetto e alla disciplina, con un vecchio bisogna stare attenti: digli “stai fermo” e non si muovera’ mai piu’.

    • A un vecchio non si insegna più nulla, o quasi nulla. Ma oggi i vecchi non esistono più, pare. Ci sono gli anziani. A cent’anni sei anziano, a 120 molto anziano. Per quanto tu possa campare, oggi non sei mai vecchio. Eppure a me sembra di invecchiare. Probabilmente mi sbaglio.
      Comunque, nessuno ancora mi costringe a star fermo, come succede a certi vecchi, pardon, anziani nei ricoveri. Mi piace l’ozio perché sono ozioso di natura. Tu, Rita, non mi sembri invece per niente portata al wu wei…
      (Per quanto riguarda i pellerossa e tanti altri, ‘olocausto’ è un termine oggi abusato impropriamente e che io non userei. Io direi strage, eccidio, massacro, genocidio.)

  • Caro Livio, ti parlo non solo da lavoratore drogato, ma da uomo di scienza: se l’essere umano, biologicvamente inteso, oziasse come le grandi scimmie antropomorfe, morirebbe di malattie cardiovascolari, e lo afferma categoricamente “Le scienze” di questo mese. Le nostre anomalamente lunghe gambe son fatte per andare. Nell’articolo afferma Herman Pontzer, antropologo, che l’unico stile di vita che ci si adatta è quello degli ultimi popoli cacciatori aficani (Hazda), che dal risveglio al sonno non stanno mai fermi. Mi spiace, ma la tua è una questione di gusto di vita, non di connaturalità biologica.

    • Ti ringrazio per la preziosa informazione e ringrazio il dottor Pontzer, il cui lavoro, sono sicuro, contribuirà a salvare molte persone dagli effetti nefasti dell’ozio.

Scrivi qui la risposta a Piero Carelli

Annulla risposta

Iscriviti alla newsletter e rimani aggiornato sui nostri contenuti