menu

MARINO PASINI

Il feudo di Farinacci e i gioielli della marchesa

E’ il 1945; il fascismo alle corde. Si sbracciano i prelati, i cardinali, il Vaticano, la Croce Rossa Internazionale per fornire ai repubblichini, ai nazisti, agli ustascia croati i passaporti per imbarcarsi, via Genova, per il Sudamerica, l’Argentina di Peron.

L’Ambasciata italiana di Buenos Aires è indaffarata nel trasferire denaro e il controllo di varie società, dall’Italia in Sudamerica, mentre Roberto Farinacci, che aveva messo Cremona sotto le sue scarpe, scorazza per il centro della città che ha sventrato, per far posto alle piazze dove arringava la folla, che lo adorava. La città si era venduta quasi tutta al ducetto di provincia che veniva da fuori, perfino l’onesto Leonida Bissolati, il socialista riformista a cui hanno dedicato a Pescarolo, a far da seggiola agli uccelli di passo, la lapide commemorativa, portò voti a Farinacci, alleandosi con i fascisti.

Povero Bissolati, che si era confuso politicamente, forse perduto nelle brume, nelle nebbie che nella Bassa, allora, si tagliavano col coltello. Farinacci che lo compativa, lo disprezzava, lo canzonò così: “Bissolati? Un animale mite, che viveva di poesia e non capiva le moltitudini rurali, dalle quali s’illudeva di farsi ascoltare”. Il leader dei socialriformisti divenne così, a sua insaputa, un precursore del fascismo, un lasciapassare sul feudo che divenne nero nero. A Cremona, il fascismo è ancora vissuto come un corpo estraneo, un virus che avrebbe infettato una comunità sana e pacifica. E non se ne parla volentieri.

La guerra è alle corde, nel 1945; Farinacci ci crede ancora, nell’arma segreta dei nazisti in grado di capovolgere le sorti della guerra. Solo quando avrà i partigiani con il fiato sul collo, Farinacci cercherà di fuggire, direzione la Valtellina. Ma era troppo tardi; tardi per fuggire. Verrà intercettato a Beverate, in Brianza. La sua Lancia crivellata di proiettili da una pattuglia partigiana. Il suo autista muore sul colpo; una compagna di viaggio è ferita e viene trascinata fuori dall’auto, come un sacco postale, e depositata sul fianco della strada, tra i papaveri, e l’erba matta. Il ras di Cremona, illeso, verrà trasportato su un’altro mezzo e portato a Vimercate, alla sede del Comitato partigiano, e dopo un processo rapido, fucilato.

Per lui erano terminate le serate di gala al “Ponchielli” con il tappeto che lo seguiva di sciure e sciuri della buona borghesia cittadina; lui che di musica operistica ci capiva poco, ma si vantava di saperne; basta stare con gli intellettuali, i notabili che comunque gli stavano sul gozzo, ma s’inventò una laurea, anche se continuava a incespicare nella grammatica.

La compagna di viaggio del ras, colpita alla gola, chi era? La marchesa Maria Carolina Mocenigo Soranzo, moglie del marchese Francesco Medici del Vascello, il cui parente stretto è Giacomo Medici, che fu democratico e garibaldino prefetto di Palermo, che poi fece arrestare Mazzini per il suo tentativo d’insurrezione del 1870. Nè Mazzini, nè Garibaldi potevano garantire titoli e onori che arrivarono quando il Medici cambiò casacca, da repubblicano a monarchico, diventando aiutante di campo di Vittorio Emanuele II e Umberto I.

La mattina del 28 aprile ’45, la marchesa si svegliò presto, uno sguardo allo specchio, gli occhi stanchi per la notte insonne. Che avrà fatto, poi? Avrà camminato avanti e indietro, inquieta, da una stanza all’altra fino alla grande cucina? Li dove teneva i cioccolatini che offriva, nelle feste, ai bambini dell’asilo di San Giovanni in Croce.  Lei avrà, ancora in vestaglia, spalancato la porta-finestra della balconata centrale e urlato il nome del suo autista? Che non si trovava, che era fuggito. Dove sei, urlò? Lei guidare, non sapeva. I paesani chiamavano la villa-castello, “Rocca”, il luogo che nel 1492 divenne la residenza di Cecilia Gallerani, sposa di Ludovico Carminati di Brambilla, detto” il Bergamino”. Cecilia è la “Donna con l’ermellino” ritratta da Leonardo Da Vinci nel 1489.

Nel silenzio della campagna, piatta, precisa,  come  “piallata dalle mani dell’Onnipotente”, e non da giudiziosi contadini, la villa è un parco di dieci ettari con otto padiglioni e un bel giardino all’italiana. La marchesa ha il cuore che sta per scoppiare, una smania, la paura che la sta soffocando. Bisognava partire subito, trovare un passaggio, un rifugio. La marchesa possedeva una villa sul lago di Como, e pensò di rifugiarsi lì, prima di un ulteriore fuga. La primavera, il fresco della mattina le accarezzava la faccia, e dal balcone guardava il verde riposante che tanto le piaceva, i cedri, i pini argentati, gli ornelli bianchi, il tempio di Flora, la casetta delle scimmie, dei papagalli. E la pagoda cinese.

Tutta quella bellezza, si sarà appannata, d’improvviso; è sicuro. Era perduta, quella bellezza, per lei. Nella fretta di partire raccolse i gioielli, quelli costosi, in un cofanetto, e chissà quale brutto presentimento le avrà attraversato la schiena. Niente più feste nella villa-castello, le cene estive con centinaia d’invitati, nonostante le zanzare, niente più quei momenti intimi che i maligni sussurravano (ma gli storici sono divisi, sulla faccenda) tra lei, fedelissima del ras, segretaria dei fasci femminili, e Farinacci, nella loggetta del secondo piano della grande casa. Lei era una donna di rango, colta, un cognome lungo, che male aveva fatto, nella realtà? Niente. Faceva beneficenza; il giorno di San Carlo era festa grande quando arrivava all’asilo con i prelibati cioccolatini.

Telefonò a Farinacci; lui, l’avrà tranquillizzata? Di sicuro c’è “lo strappo” in macchina: il Lago di Como e la Valtellina, del resto, erano sulla stessa strada. La marchesa resterà fino a sera sul ciglio della strada, perdendo molto sangue. Ore e ore di agonia, tra gli spaventati papaveri, il grido lontano degli uccelli, il silenzio atroce della campagna, a perdita d’occhio. Trasportata all’ospedale di Merate, morirà  dopo altra agonia. Il cofanetto dei gioielli scomparirà nel tragitto da Vimercate a Milano, passando da una mano a un’altra mano.

 

MARINO PASINI

04 Mag 2019 in Senza categoria

11 commenti

Commenti

  • Molto abile, ricostruzione storica vivida, su cui meditare, per ritrovare quei semi della pazzia collettiva che sotto forma di sigillate spore resistono ad ogni opera di bonifca, attendendo senza fretta un soffio di vento anomalo, una goccia di rugiada, per poter ributtare.

  • Bravo Marino! E tu che disprezzavi “le Segretarie”, eppure t’hanno insegnato a scrivere. Sono convinta anch’io (e difatti, lo faccio) che la Storia raccontata sia l’unica che viene veramente capita, e in questa forma diretta è giusto tramandarla alle generazioni successive. Cosa che, peraltro, s’è sempre fatta.
    Continua, ti prego.

    • Grazie.

  • E’ si Jack, la frase di apertura: “ebbene si è tornato anche lui”, nel contesto dei “fattacci” che stanno accadendo è qualcosa di più che “sibillina”: “è tornato anche lui” chi?
    Chi è tornato sfacciatamente alla ribalta, alla faccia della Costituzione e delle Leggi, soprattutto grazie alla compiacente ….connivenza del Matteo e dei suoi “amici”?
    Poi il video porta al giochino demenziale che esalta il culto del Matteo stesso, ma l’ouverture ……

  • “In fondo è la fine che merita: Salvini come un servizio di piatti vinto con la raccolta a punti del supermercato”. Roberto Saviano. Quel suo spin doktor è proprio un genio.

  • Notare che, se ciò che “è tornato” è un “oggetto inanimato”, cioè un concorso a punti, non si può usare il pronome dimostrativo di terza persona singolare “lui”.

    Tradotto per chi non conosce la grammatica italiana.

    Non posso chiedere: “Per favore dammi lui”, indicando il piatto dell’arrosto.

    Mentre suona soave alle orecchie di milioni di nostalgici fascisti la frase “È tornato Lui”.

    Frase che alla mia avanzata età ha costellato la mia intera esistenza di suddito del regime fascista ridipinto di bianco, rinfrescato di azzurro e ora tendente al verde.
    D’altra parte sembra di parlare di un tempo molto lungo quando si parla di “Ventennio fascista”, ma alla fine, quanto è durato quello attuale italiano o quello formigoniano, per parlare del ducetto locale?
    Qual’è stata mai l’alternativa democratica di avere sempre lo stesso partito al governo per 50anni con disegnata una croce sopra al simbolo?
    Di quale “passata” democrazia stiamo parlando?
    I quattro “signori/e” ripresi dietro di Lui sono la fotografia perfetta del popolo italiano, da sempre.
    Quanti miliardi abbiamo speso per deprimente attraverso la televisione e la scuola ogni anelito di indipendenza culturale?
    Questi sono i nostri figli.

    • Roberto Farinacci era considerato un “razzista”, anzi un “rassista”, come dicevano dalle nostre parti i fascisti in doppiopetto, che mal digerivano il radicalismo (oltre, le botte delle sue squadracce), e su di lui scaricarono molte accuse e responsabilità. In fondo, Farinacci non è poi così diverso a tanti italiani, con una doppia faccia: impulsivi, passionali, cazzottari, annoiati, pigri, e invidiosi di carattere. Violenti di carattere, ma furbi, astuti; incolti, ma svegli. La doppiezza come un vanto. La memoria come un fastidio; meglio la nostalgia, che ripulisce la memoria dei fatti, e ci mette quel che vuole.

  • …la Democrazia ha un costo elevatissimo; la dittatura , di più…

    • Signor Tullio Casilli, la ringrazio. Molto. Ha rintracciato un testo pubblicato tempo fa su “Cremascolta”, che riguarda la nostra provincia, e il suo commento, conciso, è esatto. Tutto ormai si misura in termini economici, su quello che qualcuno chiama il “dio denaro”, che è l’unico dio che domina la nostra esistenza, a quanto pare. Tutto costa. Anche la democrazia. E le dittature, gli uomini forti, i gradassi, una cosa è certo che la faranno, se saranno loro a soppiantare la fragile democrazia: ci porteranno allo sbando, non solo limitando le libertà, i diritti, ma bisognerà poi dover ripagare i loro debiti, il disastro economico che sempre le dittature hanno creato, prima o poi. Lei è un nome nuovo nel commentario, mi pare. Non sono pochi i lettori di “Cremascolta”; purtroppo molti rinunciano a commentare, a far segnalare le critiche, i consigli, che sono il sale, l’aria di qualunque giornale, anche online. Grazie ancora.

  • Oltre il feudo nero di Farinacci a Cremona, la provincia di Latina zeppa di nostalgici del fascismo, Padova e, soprattutto, Verona sono sede, da tempo di gruppi, movimenti, consiglieri comunali di estrema destra. Verona, in particolare, città magnifica, con una delle piazze più belle d’Italia, Piazza Bra, un centro storico unico ricco di piazze, monumenti, quella pietra morbida e calda di colore chiaro, elegante; il teatro Romano, che di sera commuove per la bellezza, quando si accendono le luci d’estate e gli spettacoli di prosa. L’Adige, i colli dolci e ricchi di vigneti,
    palcoscenici mozzafiato. Un incanto. La chiesa di Sant’Anastasia sul finire del Corso, con il San Giorgio del Pisanello, con il bellissimo pavimento della bottega di Pietro, luganese d’origine. Li’, un giorno, nella piazzetta della chiesa atterrò un elicottero, per straordinaria concessione del Consiglio comunale, per il matrimonio di un imprenditore veronese e la sua promessa sposa. Per il delirio di sciuri e sciure della città. La facciata del Duomo di Verona, la cappella con l’Assunta del Tiziano, l’incanto del Giardino Giusti, il museo di Castelvecchio, che ha molte opere d’arte, tra cui il Veronese,Lotto, Tintoretto. L’Arena che attira turisti da tutto il mondo, il balcone di Giulietta, e una delle chiese più belle d’Italia che è la Chiesa di San Zeno. Eppure, a Verona, il fascismo vecchio e nuovo, prolifera, trasuda, nella cultura di una città cosi profondamente bella, come un’ombra lunga e inquietante fra tanti gioelli. Ero a Verona nel luglio 2017, in attesa con altri genitori che terminasse il concerto all’Arena degli One Dimension, e in contemporanea c’era la festa dell’Hellas Verona, per il ritorno in serie A. Braccia tese di tifosi nel saluto romano; e ascoltai cori fascisti; una città impazzita per le ragazzine al concerto dei loro beniamini, e tifosi ubriachi, per la loro squadra del cuore che urlavano: duce, duce. Ogni volta che torno a Verona, ho quella bolgia negli occhi; e c’è quella brusca sensazione di una provincia maliziosamente turpe, di villanerie nascoste dall’eleganza, magnifica del luogo.

Scrivi qui la risposta a Tullio Casilli

Annulla risposta

Iscriviti alla newsletter e rimani aggiornato sui nostri contenuti