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MARINO PASINI

L’attentato dovrà restare segreto

Alice McKinnon si svegliò con la testa pesante. Si sedette sul letto, respirò il freddo della stanza. Le piaceva dormire con la finestra aperta due dita, nonostante fosse il maggio più gelido da vent’anni, così disse il notiziario radio delle sette. Brezza marina da nord, nord est. Non sono previste precipitazioni. Temperatura tre gradi, giornata soleggiata. Alice guardò la piccola fotografia del padre, un minatore con la giacca della domenica, sullo sfondo una collina pelata. Suo padre, George McKinnon era cresciuto a Dysart, una piccola città sulla costa sud della Scozia. Tra la Prima e la Seconda Guerra Mondiale, la maggior parte delle industrie scozzesi chiusero i cancelli, le esportazioni di whisky calarono vertiginosamente; anche le miniere del distretto di Fife licenziarono in massa. Molti scozzesi emigrarono negli Stati Uniti, in Australia. In Nuova Zelanda le pratiche erano più veloci, il paese scarsamente popolato e bisognoso di mano d’opera. Servivano operai specializzati, contabili, artigiani, agricoltori. Arrivarono dalla Scozia anche bambini dagli orfanotrofi. Nel 1936 c’erano più di 50mila scozzesi, in Nuova Zelanda, soprattutto nel nord. Il padre di Alice si stabilì all’estremo sud, a Dunedin, una città che vanta la più antica università del paese. I primi scozzesi vi arrivarono nel 1770, sulla nave del Capitano James Cook, che approdò poco distante da Dunedin, nella baia di Annoyingly. Circa settant’anni dopo, vi toccarono terra un centinaio di membri della Libera Chiesa di Scozia, che nel 1848 contribuirono a fondare la città. Dunedin, Dù Eideann, Edinburgo in gaelico.

George McKinnon morì che Alina era stata assunta da poco all’Otago Daily News, uno dei due quotidiani di Dunedin. Tornò a casa ubriaco fradicio, respirando a fatica. Collassò sulla strada in salita, la maledetta salita di Baldwin Street, la via residenziale più ripida al mondo; la casa stava in cima: un percorso ripido lungo 350 metri: nel tratto in basso è asfaltato, mentre la parte finale della salita, dove viveva la famiglia McKinnon, era fatta di lastre cementate; niente bitume che scivolerebbe giù per il pendio nelle giornate calde. D’inverno, a luglio e agosto, con le temperature basse, la strada non era sicura. In cima, alla fine della salita, l’altitudine raggiungeva i 100 metri sul livello del mare. Una mazzata, ogni volta farla a piedi. Nessuno voleva quella casa. L’affitto era basso, così i McKinnon firmarono il contratto. Quando arrivò l’ambulanza, il padre di Alina era a pochi metri da casa, a faccia in giù sul cemento. Nel buio della notte, la torcia di un infermiere individuò un rivolo di sangue. Quel sangue, George l’aveva sputato. La madre di Aline, Eveline Lavell, una piccola donna con il corpo a botte, che lavorava come donna di pulizie all’Otago Boys High School, disse alla figlia che non era stato l’alcool a uccidere suo padre, nemmeno quella dannata salita a fargli scoppiare i polmoni, ma l’antracosi, la malattia nera che tocca a chi lavora nelle profondità delle miniere di carbone. Alice non pianse alla morte del padre; si tenne tutto dentro, e furono gli unici momenti che disperò e pensò di aggrapparsi a Dio, ma non lo fece, anche se Alice, fin da bambina ci credeva all’anima. Pensava che tutti hanno uno scrigno segreto, uno straccio bianco, pulito, che custodiscono, anche i balordi, anche i criminali, forse, uno straccio immacolato come le bianche lenzuola che la madre di Aline stendeva in giardino, e Alice guardava lo stendibiancheria appeso con due tasselli nel blocchi di cemento, e in quel biancore che svolazzava, Alice pensava ci fosse l’anima. Osservava la sua anima, il suo scrigno segreto, bianco, che parlava con il vento che l’asciugava, il naso e le mani piccole appoggiate contro il vetro della finestra.

Il lampione stradale alla sommità di Baldwin Street era difettoso, funzionava a intermittenza, e quandò arrivò il furgoncino si spense del tutto. Senza la luna, la notte era ancora più nera. Il guidatore del furgoncino girò la chiave e il motore si accese con un rumore a strappi. Un border collie andò ad annusare le ruote, correndo intorno all’automezzo. Alice, in pigiama. vide sua madre alla finestra che aveva scostato la tenda. “Mamma”, disse Aline, come per rassicurarsi, capire cos’era tutto quel fracasso. Sua madre, si voltò e le fece un sorriso strano, la faccia mezza illuminata dal fascio di luce provocato dai fari; con la mano destra teneva una bottiglia di whisky, e dovette appoggiarsi a una sedia per non cadere. Aline corse alla finestra e la spalancò. Fu investita dall’aria gelida. Aline vide al volante del furgoncino un ragazzo, che le mostrava il dito medio. Il retro del furgono si alzò e rovesciò su Baldwin Street una montagna di palle da tennis, che partirono in tutte le direzioni, prendendo velocità. Il furgoncino fece retro marcia e tornò in cima, parcheggiando di lato. Il guidatore aprì la portiera, scese,  e saltò nel giardino incolto di casa McKinnon. Prese il bidone di ferro rotondo della spazzatura, la rovesciò a terra, staccò il coperchio e trascinò il bidone vuoto in cima alla salita, solo pochi passi dalla casa dei McKinnon. Nelle altre abitazioni si accesero  luci, si aprirono  finestre; qualcuno in fondo a Baldwin Street cercò d’interrompere la folle corsa delle palle da tennis. Aline vide il ragazzo del furgoncino infilarsi ridendo nel bidone della spazzatura, che cominciò a roteare, sempre più veloce, a staccarsi da terra…

Era quello il brutto sogno di Aline, che provò a scacciare via con l’acqua gelida del rubinetto. Aline doveva sbrigarsi, al giornale l’aspettavano, era un giorno speciale, importante. Per la prima volta, la Regina Elisabetta avrebbe attraversato le strade di Dunedin, visitato il Museo della città. Dunedin era invasa da migliaia di neozelandesi che arrivavano da tutto il paese; c’erano giornalisti da tutto il Regno Unito, il servizio di sicurezza neozelandese era stato potenziato con personale in arrivo dalla capitale, Auckland, e da Christchurch la città più grande del sud.

Quella mattina di maggio del 1981, con la città di Dunedin in festa per l’arrivo della Regina, Michael Gaffney inforcò la bicicletta e puntò verso il centro. C’erano cavalloni di nuvole bianche, faceva freddo, ma c’era comunque il sole, che abbagliava. L’enorme folla si era ammassata intorno alla piazza dell’Ottagono, e nelle vicinanze dell’Otago Museum, che la Regina avrebbe visitato, e dove all’ingresso aveva steso un lungo tappeto rosso, Michael vide un gruppo di giovani che inalberavano cartelli con scritto “Abbasso la monarchia”. Li superò, e seguendo percorsi che aveva studiato, in tasca una mappa che aveva disegnato lui stesso, si diresse verso l’Adams Building, l’edificio dell’Università che si trovava vicino al Museo. Sul manubrio della bici, in un paio di vecchi jeans teneva una carabina rubata e due proiettili calibro 22. Sapeva che nell’edificio universitario c’era una portina laterale, uno sgabuzzino con le scale che collegavano all’ingresso principale. Michal sapeva che il palazzone l’avrebbe trovato deserto, e la serratura della portina laterale facile da scassare. La polizia, e quelli della sicurezza erano  lungo i cordoni che limitavano l’accesso della folla alla strada. Michael salì al quinto piano; all’interno dell’edificio un silenzio di piombo; fuori, trombe, trombette, rumori di motociclette, un’orchestra di fiati, tamburelli. Il ragazzo di 17anni, già con un ragguardevole curriculum di furti, danneggiamenti, una carriera scolastica da dimenticare, un patrigno che lo picchiava, cercò una finestra, un’apertura da cui si potesse vedere l’entrata del Museo. Voleva colpire la Regina mentre scendeva dall’auto, e a piedi avrebbe percorso i pochi passi prima di raggiungere le colonne d’ingresso dell’Otago Museum. Contro una parete vide quattro cubicoli stretti che parevano armadietti. Erano gabinetti, e ogni cubicolo aveva una finestrella. Michael indossò un paio di guanti, chiuse il coperchio del WC e ci salì sopra. Posizionò i vecchi jeans sotto le sue scarpe, per evitare di scivolare e per garantisi ancora qualche centimetro in più di altezza. Si sentì pervaso da un’emozione fortissima. Per lui era un gran giorno. Avrebbe, forse, fatto la Storia. Non era più un ladruncolo da strapazzo, uno stupido da quattro soldi che strozzava gli animali, staccava la testa a uno scoiattolo, o trascinava a terra le ragazzine tirandole i capelli. Il disprezzo degli altri si sarebbe tramutato in rispetto, pensava. Avrebbe forse fatto meglio a sparare al patrigno, ma uccidere, invece, la Regina lo avrebbe posto all’attenzione di tutto il mondo. Meglio la Regina. Michael aveva fatto prove di sopravvivenza nel bosco, il suo luogo favorito, restando a lungo senza cibo e acqua; aveva provato a stare rinchiuso per due giorni in un cofano di un automobile, poi un amico della sua banda aprì il cofano, Michael mezzo soffocato, ma vivo. Si era allenato con le arti marziali. La Regina arrivò, scese dall’auto, e Michael sparò.

Il proiettile andò a scheggiare il muro a circa due metri dal passaggio della Regina, e non colpì nessuno. Il frastuono coprì lo sparo. Un giornalista inglese,  che era a pochi passi dalla Regina percepì un rumore strano, che gli sembrò uno sparo e lo disse alla polizia locale, che lo tranquillizzò: era caduto un cartello stradale, proprio mentre la Regina scendeva dall’auto. Otto giorni dopo lo sparo, Christopher John Lewis (in questo racconto sceneggiato, Michael Gaffney) fu arrestato e accusato di possesso illegale di arma da fuoco. La polizia aveva trovato il proiettile e le impronte nell’Adams Building, ma non divulgò la notizia. Al processo non fu accusato dell’attentato fallito. Ma come, disse Lewis: mi accusate solo di possesso d’armi? Shit, merda, non è possibile. Passò tre anni in prigione, l’ultimo periodo in un ospedale psichiatrico. Da lì scappò, perchè era prevista la visita del Principe Carlo d’Inghilterra in Nuova Zelanda, ma fu  riacciuffato. Nel 1984, con Lewis ancora libero, la polizia di Dunedin fu avvertita, dall’alto, che era previsto un importante summit ad Auckland di vari capi di stato del Commonwealth, e quel balordo di Lewis fu portato via da un autovettura della polizia. Lo accompagnarono all’ereoporto, e con la sua ragazza Rose, la polizia gli pagò volo andata e ritorno per Queensland, incluso soggiorno di una settimana in un hotel di lusso per due persone,  con vista sulla Grande barriera corallina, il luogo che il giovane balordo sognava di vedere, fin da bambino. La polizia gli disse che da lì,  non doveva muoversi altrimenti l’avrebbero giustiziato, stavolta, e fatto sparire il cadavere. Lewis, tornato a Dunedin, per un pò stette tranquillo, diventò buddista, fece vari mestieri, ma poi tornò a commettere reati, svaligiò negozi, un ufficio postale. Nel 1996, mentre era in prigione per piccoli furti, fu accusato dell’omicidio di una giovane madre, Tania Furlan, e il rapimento di sua figlia, e per questo era previsto l’ergastolo. Lui si dichiarò innocente, ma non fu creduto, e mentre il processo volgeva al termine si suicidò in carcere. Un inchiesta successiva al suo suicidio in carcere, sollevò molti dubbi, sulla sua colpevolezza dell’omicidio di Tania Furlan, incolpando invece un suo compagno di cella, Travis Burns, il quale uccise nello stesso modo e con la stessa arma, un martello, lo stesso dell’omicidio Furlan, Joanne McCarthy, una giovane madre, di fronte ai suoi due bambini piccoli. Christopher John Lewis, il balordo che provò ad uccidere la Regina, e non ci riuscì, aveva terminato la sua vita sbagliata. La sua vita sprecata. Il suo attentato alla Regina Elisabetta fu tenuto segreto dalla polizia neozelandese, pare su decisione diretta del capo del governo, per non pregiudicare visite future, già tutte programmate, di vari regnanti, principi e capi di stato in Nuova Zelanda. Per ragion di stato. Per non subire le feroci critiche della stampa britannica contro le falle dell’apparato di sicurezza. Fu tenuto segreto, anche che Lewis architettò di colpire il Principe Carlo, e aveva già raggiunto Auckland, la capitale, dove Lewis aveva preso in affitto una stanza e si era procurato un arma. Tenuto d’occhio, alla fine Lewis venne catturato mentre si trovava dentro un auto presa a noleggio.

Solo in anni recenti è stato possibile ricostruire tutto, grazie alla confessione di un sergente di polizia in pensione, a un giornalista di Dunedin, e dopo la pubblicazione sull’Otago Daily News, varie inchieste, anche online hanno scandagliato la faccenda che ha avuto molta risonanza nei paesi anglosassoni.

Fonti principali:

Ex-cop claims Queen Elisabeth came close to being assassinated on tour of New Zealand 1981, The Sun, Australia.

Hamish McNeilly, The Snowman and the Queen, la storia del ragazzo dai capelli biondo fragola che voleva ammazzare la Regina, Stuff, 15 gennaio 2018

Tom Porter, Troubled teen almost succeded in bid to assassinate Queen Elisabeth, Newsweek, USA, s.d.

Baldwin Street, Dunedin, è considerata, se non la più ripida, una delle vie residenziali più ripide al mondo ed è meta ogni anno di molti turisti che vanno su e giù per la salita e si fanno fotografare in cima. E’ molto reclamizzata, e dall’alto si vede tutto il golfo, il mare, la città. Una sera due giovani ubriachi, un ragazzo e la sua morosa, decisero di provare a lanciarsi giù per la discesa dentro a un bidone della spazzatura. Il bidone ruzzolò velocissimo e andò a sbattere contro un auto parcheggiata. Il ragazzo morì sul colpo, lei subì varie fratture, ma si salvò. Ogni anno, a Baldwin Street c’è una corsa cittadina. Il record, di recente lo deteneva un giovanotto di Christchurch, con il tempo di un minuto e 59 secondi, dal piano su fino in cima, “alla casa dei McKinnock”.

Ho tagliato molto della storia che avevo preparato, per ragioni di spazio. Mi scuso per la  lunghezza dello scritto.

MARINO PASINI

29 Giu 2019 in Senza categoria

17 commenti

Commenti

  • Cremascolta ha un monito di osservanza dello spazio, che sia contenuto per tutti i suoi Contributori, ma la tua storia si legge “tutta d’un fiato”, quindi il tempo misurato in battute perde di significato rispetto a quello soggettivamente avvertito in termini di tempo dedicato, tutto ben speso.

    • Lei ha ragione. Ha avuto fin troppa pazienza e generosità nei commenti. La faccio lunga, e non va bene. Così, il mio scritto della prossima settimana lo infilo qui, è breve: sono straorgoglioso che mia figlia sta dalla parte di Carola Rackete, capitana della Sea Watch, e non con Matteo Salvini. Alle volte, nella vita, ci si accontenta di poco. Del resto, come diceva mio padre, le persone il più delle volte basta guardarle in faccia: e la faccia della giovane capitana la preferisco, e di molto, a quella di Salvini. E poi, non mi risulta che lei, la giovane capitana (ce ne fossero come lei) abbia messo in piazza, come Salvini, le sue relazioni amorose, neppure sventogliato un rosario in pubblico. Questo il mio scritto. E’ breve. Grazie ancora.

  • Bello l’inizio…
    Anche a me piace dormire con la finestra aperta due dita…

    • Mi sa che c’è qualcosa di candido, di pulito nel tuo commento. In fondo oltre il raccontarsi se siamo d’accordo sulla politica di Trump, i migranti sì i migranti no, abbiamo una cosa in comune tu, Alice McKinnock e chi scrive: ci piace dormire con la finestra aperta due dita. E’ un inizio di Europa, o di qualcosa, insomma.

  • ….non si “sorpassa” su Baldwin Street, troppo, troppo ripida!
    Che se poi “….. su Baldwin Street (arrivano) una montagna di palle da tennis, che partono in tutte le direzioni, prendendo velocità e …. il ragazzo del furgoncino si infila ridendo nel bidone della spazzatura, che cominciò a roteare, sempre più veloce, a staccarsi da terra…” beh, allora la metafora con quello che ci sta accadendo qui nel “buffostivale” è godibilmente azzeccata!
    E allora, invece di continuare imperterrito con …la freccia fuori, a cercare di sorpassare dove non si può, mi rileggo un’altra volta il “sabatale” dell’amico Marino! Ritiro dentro la freccia, proseguo tranquillo incoda e …..addafurnì a nuttata!

    • Tu sei una persona gentile. Ma sai, credo si preferisca azzuffarsi sulle faccende nostrane: Salvini, Di Maio, Lotti, e compagnia bella. La Nuova Zelanda sta lontana. Ciao

  • ….e tu, Marino, alle 23:02 l’hai messa giù “pane e salame”, pane al pane e vino al vino!
    Parole scolpite nella pietra, roba che se hai sbagliato una martellata, sono .ca…!
    Quèla l’è la manera!
    E io sto con te.
    Però, per Sabato prox, free!

  • Invece di perdere tempo a leggere le mie storielle mediocri, consiglio a chi mastica un pò d’inglese e interessa il giornalismo di qualità, quello coraggioso, fatto da chi rischia molto, anche la pelle, il blog online “FORBIDDEN STORIES” che in Italia, se non è comparso sul settimanale “Internazionale”, e mi è sfuggito, mi risulta assente sui giornali italiani, presente invece su quelli tedeschi, inglesi, francesi, e su “El Pais”, dove, per la prima volta, mi è capitato di leggere una toccante storia di una miniera in Tanzania. “FORBIDDEN STORIES” è un consorzio di una quarantina di cronisti di tutto il mondo che hanno messo in piedi un progetto “Green Blood” che indaga le storie di giornalisti che sono stati assassinati, incarcerati mentre investigavano su temi ambientali. Uno di questi giornalisti è stato bruciato vivo (Jagendra Singh, le journaliste trop curieux brulè vif, Le Monde, 22.6.19) altri son stati picchiati e minacciati. Gli articoli pubblicati poi su 30 media internazionali, naturalmente sono anonimi, per evitare possibili vendette. Se qualcuno di voi ha visto “Forbidden Stories” su un giornale, un blog italiano, per favore lo segnali. Grazie.

    • Signor Pasini, perché insiste nel dire dei suoi post cose peggiori di quelle che, almeno secondo me, meriterebbero? Capisco che l’incensarsi (direttamente o indirettamente, gradevolmente o sgradevolmente, le tecniche sono infinite) sarebbe disdicevole, ma buttarsi così a terra non le sembra eccessivo? Per me le sue non sono “storielle mediocri” e, anche se gli endorsement che contano su questo blog non sono certo i miei, ci tengo a dirle che la leggo sempre con piacere.

      So che Forbidden Stories ha un suo sito web e che in rete ci sono diversi contributi in proposito. Non sapevo invece della specifica vicenda di Jagendra Singh.

  • Noni mi butto a terra, caro Martini, perchè a terra sono. E chiamarmi “mediocre” non è un insulto, ma una constatazione. Se altri ritengono di non essere mediocri, buon per loro; magari lo sono, ma rifiutano di crederlo. Magari la loro scrittura, i loro testi brillano. Può essere. Quando ero all’Adelphi (dove ho collaborato per circa due anni), Ena Marchi (allora numero tre, o quattro, della casa editrice, dopo Calasso e Foà) mi passava tra i dieci e i quindici testi da leggere e schedare, ogni mese; tre o quattro la settimana. Qualcuno lo ricevevo anche da Laura Lepri, la scopritrice di Susanna Tamaro. Erano dattiloscritti, computerscritti di avvocati, magistrati, dentisti, insegnanti, presidi, piccoli imprenditori, pensionati più o meno colti, studenti universitari, tutti convinti di essere scrittori di qualità. Tutti che si ritenevano dei talenti di narrativa. E accompagnavano i loro scritti con lettere di presentazione cariche di grandi-cose-fatte, anche collaborazioni a quadrimestrali spediti gratis a qualche biblioteca. Perchè, nonostante la qualità mediocre, la mia, come scrittore, mi ritengo un buon lettore. Più che buono. Riconosco in poche righe la qualità altrui. Ena Marchi, diceva che si fidava molto dei miei pareri. Se annotavo che un testo era decente, che valeva una seconda lettura, lo leggevano. Se dicevo di buttare, buttavano: dubito che spendevano altri soldi per un’altra lettura. L’Adelphi era intasata di aspiranti romanzieri. In due anni (poi, sono scoppiato, non riuscivo a leggere nient’altro, cambiai azienda e avevo poco tempo libero, così dissi basta all’Adelphi; poi, ricominciai con il Mulino, con Ugo Berti, per alcune autobiografie), in due anni, dicevo ho imparato quanta presunzione c’è in circolazione, e anche quanta bassa qualità. Sa quante schedature positive ho inviato all’Adelphi? Nessuna. Solo di un caso, ho scritto che c’erano alcuni passaggi, di buona letteratura, ma il testo, complessivamente non meritava la pubblicazione. Le dico che l’Adelphi, allora, cercava disperatamente di pubblicare un nuovo romanziere italiano, un nuovo nome, ma non si trovava. Perchè scrivere un buon romanzo, con stile, personalità e “qualità Adelphi” è difficile, molto difficile. E ne approfitto, a chi ha nel cassetto un romanzo che ritiene valga qualcosa: non accompagnatelo con lettere di presentazione. Non dite niente. A un buon editore non interessa chi siete, cosa fate, di chi siete figlio o figlia. A meno che vi chiamate Veltroni, Agnelli, D’Alema, con un cognome che suona. Le eccezioni ci sono sempre.

    • So che, come si diceva un tempo, “c’è più invadenza nella lode che nel biasimo”. Per cui mi scuso, caro Pasini, se posso esserle sembrato un poco invadente. Ma le confermo il mio apprezzamento.
      In particolare, leggendo di questo attentato da mantenere segreto, mi viene da pensare che anche altri attentati, magari più vicini a noi, siano stati effettuati, con maggiore o minore successo, e siano stati in modo simile “secretati” oppure “depistati” rispetto all’opinione pubblica.

  • Ci conosciamo da una vita, Marino, ma da quando hai iniziato a collaborare con CremAscolta, stai svelando talenti a me ignoti: ora anche il talento di essere un buon “lettore”. Una virtù rara e lo dimostri tu stesso quando dici che il tuo parere era apprezzato da scrittrici di valore.
    Ecco perché ti vedo spesso in emeroteca a leggere il Domenicale de “Il Sole 24 Ore”, un Domenicale che nel tempo ha perso un po’ della sua vivacità “filosofica”, mentre ha guadagnato con le pagine letterarie.

    A proposito di tua figlia: meno male che ci siano tanti giovani che si sono sentiti in sintonia con.. l’Antigone dei nostri giorni.

    • Caro Piero, è vero ci conosciamo da tempo, da “Ipotesi 80”, credo; e ho ritrovato di recente un mio scritto dove prendevo in giro un convegno letterario di poesia visiva. Narravo le ghignate trattenute con l’amico Valentino, a Urbino, mentre una signora mimava con i gesti i suoi sogni sessuali, trasferiti su pagina, e che, diceva lei, erano stati pubblicati su un semestrale marchigiano. E’ vero, sono un frequentatore di biblioteche, fin da ragazzino. Crema, Bergamo, anche l’emeroteca di Brescia, in Via dei Musei, ma soprattutto Milano, la bellissima Braidense, dentro Brera, in Via Moscova dove ho consultato di recente “Il Mondo” di Pannunzio su microfilm. E la Sormani, la Centrale di Milano, frequentata anche da non pochi senza fissa dimora. Qualche settimana fa, alla Sormani, mentre leggevo un quotidiano americano, il barbone di fianco leggeva “El Pais”. Puzzava che era un piacere, ma sembrava di essere in un consesso internazionale. Mia figlia? Sai, devo essere sincero: anche se le ho sempre detto, non dimenticare mai di sviluppare il tuo personale senso critico, non ti accontentare mai di ciò che ti viene mostrato, soprattutto in politica, e le persone guardale in faccia che tre volte su quattro la imbrocchi, avevo il terrore che mi dicesse: mi piace Salvini. Perchè a tutto c’è un limite, e me la sarei presa con me stesso, non con lei: avrei detto sei stato un cattivo padre. Io e lei abbiamo votato, alle Europee, due liste differenti, ma non contrastanti. E sentirla difendere la capitana della Sea-Watch con parole sensate, come spesso succede a chi ha dei figli da poco adulti, mi ha ripagato di tanti errori, le cadute. Ecco, un attimo di quasi felicità.

  • Ma oggi, Marino, è il vento di Salvini che soffia forte e la sua “narrazione” rischia di contagiare anche i giovani come ha già contagiato milioni di italiani adulti che vedono, finalmente, in lui “l’uomo forte”, il “condottiero” che riuscirà a “salvare” il nostro paese dai migranti (quelli delle Ong, perché gli altri arrivano ogni giorno senza alcuna parata propagandistica.

    Ci manca la… giusta misura: al cosiddetto “buonismo” al “cattivismo che elettoralmente ha dimostrato di pagare, un cattivismo che paga anche perché, ancora finalmente, c’è un politico che punta a ridare al paese, contro la… cattiva Europa, la propria dignità di “nazione sovrana”
    (parole analoghe già sentite qualche decennio fa).

    • Hai ragione, Piero. Berlusconi pensava che uno come Salvini poteva andar bene al Milan, tanto per dargli un lavoro, fuori dalla Lega, e invece non ha capito che il giovanotto è abile e sa parlare semplice, chiaro, in modo efficace. Salvini, Renzi, Di Maio, Dibba sono tutti figli della televisione, del video, e lì ci marciano alla grande. Salvini è il più bravo di tutti. Ma deve fare attenzione, i leghisti, a volte, brusciano, scivolano sui soldi – così dicono diverse inchieste – ma certo, direbbero loro: sono tutte tendenziose. Il dio denaro piace a tantissimi, e ai leghisti di “Roma ladrona”, che marciano con gli interessi sui migranti, e possono continuare a incassare i dividendi elettorali ancora per un bel pò, anche per colpe altrui, credo debbano stare un filino lontano dalle tentazioni. Già con la storia della Tanzania è stata una bella botta. Forse a questo serve il rosario? Sono malelingue? Chissà.

  • Caro Martini, come lei ben sa negli anni ’60 e ’70 i servizi segreti, anche per effetto della guerra fredda, avevano all’interno personaggi legati all’estrema destra. Il problema non era solo italiano, con Guido Giannettini, il generale Vito Miceli, con l’ammiraglio Eugenio Henke, di cui ricordo il nome, perchè quando ero furiere segretario a La Spezia, nella Marina Militare mi capitò di dattiloscrivere gli eventuali avanzamenti di grado (si passava con “eccellente”, o almeno con “superiore alla media”, si era bocciati con “nella media”) fogli di protocollo “secretati”, si parla di avanzamenti di alti ufficiali: capitani di fregata, di vascello, e il terzo firmatario era Henke, credo, se ben ricordo, allora ammiraglio di squadra a capo dell’Arsenale di La Spezia, pure con un alto ruolo di responsabilità nei Servizi Segreti. Non ricordo i nomi degli ufficiali, e non c’era niente che non mi facesse sbadigliare, mentre dattiloscrivevo, solo promozioni, o bocciature, che erano rare. In quei tempi c’erano magistrati come Giuliano Turone, Gherardo Colombo che scoperchiarono la Loggia P2, e ben ricordo cosa disse la stampa di destra: sono magistrati comunisti, tendenziosi. Lo dissero anche di Piercamillo Davigo, di Francesco Greco, di Paolo Ielo, ai tempi di “Mani Pulite”. Il popolo dei garantisti, che in Italia è ben nutrito, si accanì contro il lavoro dei magistrati di “Mani Pulite”. Finchè si indagava nelle alte sfere andava bene, ma guai a indagare più in basso, sul ” popolo bue”, e la borghesia rancorosa dedita ai piccoli traffici, alle piccole grandi corruzioni, alle case al mare sul mare troppo sul mare, a mille sotterfugi illegali; e la magistratura onesta che indagò a lungo anche sui comunisti, tenendo Libero Greganti in galera per un pezzo, non era più da applaudire, da sostenere; quando questi magistrati provarono a metter le mani sulla pila dei fascicoli della corruzione spicciola, il popolo, e un bel pezzo della borghesia le si rivoltarono contro. E’ il popolo maggioritario, in Italia, purtroppo. Dare del comunista a Giuliano Turone che ha indagato sul terrorista Cesare Battisti, dare del comunista a Gerardo D’Ambrosio che si è occupato del delitto Calabresi e ha avuto contro quasi tutta Lotta Continua e non solo quella, dare del tendenzioso Piercamillo Davigo, o Francesco Saverio Borrelli, significa non avere rispetto della buona magistratura. Significa essere degli ignoranti. E sono gli stessi che inveirono contro Ilda Bocassini, una donna magistrato a cui levare il cappello che è stata oggetto di attacchi dalla stampa destrorsa anche stupidi, perchè portava calzini di colore diverso. Se si hanno soldi si trovano mille cavilli per farla franca. Non mi stupisce l’amarezza di Gherardo Colombo, e quella di Giuliano Turone ben descritta nel suo ultimo libro “Italia occulta” edito da Chiarelettere. E’ difficile fare seriamente il magistrato in un paese corrotto come il nostro, dove l’illegalità si respira con l’aria.

  • Ha perfettamente ragione, caro Pasini. E aggiungo che i meccanismi di “desecretazione” degli atti riservati sono, in Italia, molto più difficili da attivare che in altri paesi del mondo occidentale. Invece che sul cinquantennio, non ricordo quale studioso ha stimato sul secolo il tempo necessario a fare chiarezza sui nostri misteri.

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