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MATTIA BRESSANELLI

Da commento a post, rispondo a “Una nuova normalità”

Rispondo a Rita che nei commenti del post “Una nuova normalità” mi chiede delle proposte di cose da fare con urgenza. Era un commento, ma diventava lungo, quindi l’ho copiato in un post. Mi perdonerete se la struttura non è eccelsa, ma non nasceva in questo formato.

 

Comincio a sgombrare il campo da grandi rivoluzioni della struttura economica mondiale. Prendo per buono il sistema che abbiamo in occidente, e lavoro al suo interno. Niente ragionamenti vaghi su termini poco chiari come capitalismo, liberismo, ecc. che possono aiutare a distinguerci da sistemi come l’URSS o la Cina, ma diventano poco utili appena si scende un minimo nel merito delle questioni.

Altro aspetto, parlerò dei problemi specifici dell’Italia, che è il paese che più a problemi ad adattarsi alla modernità, non per ragioni esogene, ma endogene.

 

Mi si chiede una lista di tre cose urgenti, comincio con due, mi sembra un buon punto di partenza. Non seguo un particolare ordine, sono riforme strutturali (che valgono tutti gli anni da quando approvate, non solo uno o due) da fare subito, anzi venti/trentanni fa, i cui risultati si vedono nel lungo periodo.

 

1) Sostenibilità del sistema pensionistico:
il nostro Paese alloca più risorse di quanto si può permettere in previdenza sociale. In particolare ci sono due ordini di problemi; uno demografico e uno economico.
Il primo si vede dal famoso grafico a piramide:

 

 

Da questo grafico si vede molto chiaramente la proporzione tra chi è in età da lavoro, e chi in età da pensione. Si vede benissimo che la prospettiva è di avere i cosiddetti “baby boomer” che andranno in pensione, a fronte di un minore ingresso di forza lavoro che dovrà pagargliele.
Quanto spendiamo in proporzione al PIL? Dopo la Grecia, più di tutti (il 15%):

 

 

Facilmente saremo i primi l’hanno prossimo, dato che il PIL di quest anno scenderà molto, mentre la spesa per pensioni rimarrà invariata (in valore assoluto), e quindi aumenterà in percentuale.

Se non fosse evidente, il problema è nei contributi da versare, il il 32% dello stipendio lordo, a fronte di una media attorno al 20 di Paesi confrontabili come Francia e Germania. Questo significa che le imprese devono pagare un quarto lavoratore ogni tre solo di contributi pensionistici, il famoso “costo del lavoro” troppo alto. La diretta conseguenza si può vedere da due punti di vista. Le imprese possono assumere meno lavoratori, oppure ne assumono comunque quanti glie ne servono ma pagandoli meno, non riuscendo ad avere i migliori, che se ne vanno dal Paese in cerca di remunerazioni adeguate.

Quindi che si fa? Sicuramente è ora di finirla, opinione pubblica e di conseguenza politici, di sognare quota 100, 42 o che numero volete, e porsi il problema per quello che è. Come risolverlo è senz’altro più complesso.

 

Dai tentativi fatti in passato sappiamo quello che sicuramente non si può fare, ovvero decidere secondo criteri completamente campati per aria che esiste una categoria di pensionati definibili “d’oro”, a cui tagliare la pensione. E’ incostituzionale trattare persone nelle stesse condizioni giuridiche in modo diverso. Questo non significa che gli assegni in essere non si possano toccare. Si può a patto che si includa tutta la categoria nell’intervento, con le debite progressività, senza discriminare nessuno.
Qui è fondamentale osservare che non esiste alcun principio chiamato “diritto acquisito“, esiste solo la “non retroattività“. Ovvero, che la legge non si applica nel passato, vuol dire che a nessuno può essere chiesto di restituire quanto versato prima dell’introduzione di una nuova legge, ma dall’introduzione la legge vale per tutti. Pensate a quanto poco sensato sarebbe se così non fosse, applicandolo ad un esempio paradossale: mettiamo che in un Paese il furto non è reato. Domani fanno una legge che lo vieta. Nessuno mi può arrestare perché ho rubato oggi (non retroattività), ma non mi posso certo lamentare se mi arrestano tra una settimana, appellandomi al fatto che io già rubavo prima che legge fosse introdotta (diritto acquisito, che per ovvie ragioni non esiste).

 

Se può sembrare ingiusto abbassare gli assegni, consideriamo che le pensioni sono un sussidio (giustissimo, nessuno sta criticando che ci sia) finanziato dall’economia corrente. Se l’economia è meno prospera, è fondamentale che gli assegni ne seguano l’andamento, altrimenti si pone un carico troppo alto sulle attività produttive, come già dicevamo prima. Consideriamo anche questo grafico, che mostra la disuguaglianza generazionale nei redditi:

 

 

 

Ciò che non va non è tanto la comparazione sul singolo anno, quanto lo spostamento nelle fasce più alte man mano che passa il tempo.

E’ così che si arriva a ragionamenti folli, come quello che non si possono tagliare le pensioni perché i nipoti vivono con le paghette dei nonni, o i filgi con quelle dei padri… La follia totale di una società che funziona al contrario!

 

2) Efficientamento dell’impresa:
Rita, quando dici che l’inefficienza cresce con la dimensione d’impresa, ti sbagli.

Prima di andare avanti, definiamo l’inefficienza come scarsa produttività. La produttività è rapporto tra il valore aggiunto e l’input di lavoro. Un impresa produttiva è quella che riesce ad aumentare il valore aggiunto a parità di lavoro, o comunque ad aumentarlo in modo più che proporzionale.

 

Qui un dato aggregato sull’andamento della produttività totale dei fattori in Italia, che si commenta da solo, e ci dice che il problema della produttività esiste:

 

 

Le microimprese (quelle con meno di 10 addetti) sono circa 4,1 milioni e pesano per il 95,3% delle imprese attive, il 47,4% degli addetti e il 30,6% del valore aggiunto realizzato. Tra le microimprese, quelle con meno di un addetto sono più di 2,4 milioni e contribuiscono per circa un terzo al valore aggiunto di questo segmento di imprese” (fonte https://www.istat.it/it/archivio/175950)

 

Qui il dato sulla produttività per dimensione d’impresa:

 

 

Vediamo come dove soffriamo sono le microimprese, che sono quasi tutte le imprese, metà della forza lavoro.

 

E’  quindi necessario introdurre un sistema fiscale che incentivi l’aggregazione delle partite IVA, invece di agevolarle abbassandogli le aliquote.

 

Le imprese più grandi sono più produttive perché riescono a differenziare le attività svolte dai dipendenti, puntando sulla specializzazione e sull’alta formazione degli stessi. Sono quelle che si possono permettere di investire in ricerca e sviluppo. Sono quelle che possono permettersi manager esperti, non il capofamiglia che si improvvisa. Sono quelle con grandi capitali, per cui hanno maggiore resilienza alle crisi.

 

Il terzo punto sarebbe l’introduzione di sistemi di concorrenza e libera gestione nelle scuole secondarie, per consentire di avere una forza lavoro, e in generale cittadini in grado di capire il mondo di oggi, non quello dei primi del Novecento, ma ce lo teniamo per un’altra volta.

 

Mi scuso in anticipo se non risponderò ai commenti, ma sta per iniziare la sessione d’esami estiva. Spero che comunque ne discuteranno i lettori.

MATTIA BRESSANELLI

03 Giu 2020 in Italia

27 commenti

Commenti

  • – Non proprio da quando sono nata ma quasi sento parlare della “necessità” di separare la previdenza dall’assistenza. Nessun governo lo ha mai fatto, naturalmente, poiché la confusione fra le due cose permette di taroccare i conti e di mistificare la realtà del sistema pensionistico. Benché in leggera crescita, la spesa pensionistica è sotto controllo (nel 2018 ha raggiunto i 225,593 miliardi contro i 220,843 del 2017), mentre risulta sempre più insostenibile il costo delle attività assistenziali a carico della fiscalità generale (105,666 miliardi di euro nel 2018, con un tasso di crescita annuo dal 2008 pari al 4,3%). Per decenni con i contributi previdenziali dei lavoratori (salatissimi!!!) si è finanziato di tutto, a partire dalle casse integrazioni a go go.
    – C’è stato lo scandalo dei baby pensionati, poi lo scandalo del cosiddetto “sistema retributivo”, per cui le pensioni non erano parametrate sui contributi realmente versati bensì sull’ultimo stipendio che, com’è noto, veniva opportunamente gonfiato per percepire un assegno pensionistico più alto. La mia generazione, non avendo usufruito di nessuno dei vantaggi elencati, è stata quella che ha cominciato a fare le spese di tutto questo, dopo di che toccherà ai più giovani.
    – Quota 100, introdotta per il triennio 2019-2021, per legge non potrà essere rinnovata e quindi rappresenta un non-problema, utile solo in ambito di talk-show per fare un po’ di caciara.
    – Non esiste alcun “diritto acquisito“ (per abolire la “scala mobile” dalla sera alla mattina hanno chiesto il permesso a qualcuno?), quindi, per come la vedo io, fin da oggi si dovrebbe imporre a tutti il sistema contributivo: tanto hai versato, tanto prendi.
    – Le pensioni NON sono sussidio. Sono soldi nostri. Se si sono versati in 42 anni 250mila euro (più o meno la media è questa), vuol dire che bisogna scampare fino a 118 anni per riportarli a casa, e perciò il lavoratore muore immancabilmente in credito.
    – L’ultimissima cosa da toccare in Italia, sono proprio le pensioni.
    – Cominciare dall’abolizione immediata delle Ragioni a statuto speciale (vergognose macchine mangia soldi) e dall’azzeramento dei 500 enti inutili potrebbe rappresentare un buon inizio. Un segnale positivo.
    – Non siamo dei robottini sfornati da una stampante tridimensionale ma un popolo con una storia e una tradizione. In Italia funziona solo la micro e media impresa, anche perché le grandi imprese del passato, tutte, ma proprio tutte, hanno fatto una fine ingloriosa. E’ fattuale. L’italiano preferisce “lavorare da solo”, o “lavorare in proprio” con pochi dipendenti che sono la sua famiglia, ed è giusto che tale naturale inclinazione venga incentivata. Non siamo cinesi, non saremo mai americani. Vivaddio!
    – Le grandi imprese saranno anche più produttive (è sempre meno vero) ma sono come gli allevamenti intensivi: fanno schifo. Ricordo che i “manager esperti”, come “gli esperti” in generale, sono quelli che hanno mandato l’economia mondiale a farfalle, segno evidente che la loro “esperienza” era più millantata che reale.
    – La scuola è tutta da rifare, come non essere d’accordo, ma anche questo mantra lo sento ripetere da quando sono nata, e francamente non ci spero più.
    – Non hai citato il solo, unico, vero cancro italiano: la burocrazia. C’è poco da fare industria e lavoro con il tritacarne burocratico che ci ritroviamo, gli investitori esteri infatti scappano a gambe levate. Ma anche questa la sento dire da quando sono nata.
    – E la tassazione folle, dove la mettiamo? E per favore nessuno reciti il ritornello “pagare tutti per pagare meno”. Falso. La burocrazia (sprechi) non farebbe altro che ingollarsi un piatto più ricco.

  • Non vorrei cadere nelle vituperate osservazioni ad minchiam in un ambito, come è quello delle pensioni, che non mi è per nulla familiare. Lascio agli esperti i commenti. Io, da profano (che in più ragiona come un uomo del XII secolo), mi chiedo: a cosa servono le pensioni, qual è la loro ragion d’essere, il motivo per cui esistono?
    Quando io vedo persone che nella loro vita hanno guadagnato montagne di soldi, posseggono grandi risparmi, immobili, e oltre a ciò percepiscono “pensioni d’oro”, resto perplesso. Mi chiedo: “che bisogno hanno di ricevere simili vitalizi dallo Stato?” I diretti interessati mi rispondono che è un loro ‘diritto acquisito’, perché hanno versato i ‘contributi’, hanno “lavorato duramente”, “pagato le tasse” ecc. Alla fine, mi sento uno stupido.
    Poi vedo persone che hanno lavorato anch’esse duramente, pagato le tasse, fatto sacrifici ecc., ma hanno guadagnato quel poco che basta per tirar su i figli, pagare un mutuo o l’affitto, le bollette e così via. E questa gente, senza aver grandi risparmi né grandi proprietà, si ritrova spesso con “pensioni da fame” e non ce la fa. E resto nuovamente perplesso. Ma anche qui bisogna calcolare i ‘contributi’, le curve demografiche ecc. I numeri non si possono imbrogliare.
    Penso che per il signor Bressanelli questa sia inutile demagogia, e sono contento che non abbia di tempo di rispondermi e bacchettarmi. E probabilmente abolire le “pensioni d’oro” e i vari privilegi non servirebbe a garantire a tutti pensioni dignitose. Ma io ragiono da ‘romantico’. E i soldi non si sa più dove prenderli né da dove vengano, ma certo non sono romantici.
    Il mio errore, probabilmente, è pensare che la pensione debba offrire mezzi adeguati di sostentamento a chi, uscendo dal mondo del lavoro, non ha più mezzi, e non arricchire ulteriormente chi è già ricco di suo. Mi illudo ancora che si debbano tutelare le persone più deboli in una società che non può più essere socialista, né sociale né umana.

    • Magnifico Livio,se ti può servire a qualche cosa il mio parere, contraddico clamorosamente quanto tu dai come “probabile”: non sbagli affatto!
      La pensione deve offrire mezzi adeguati di sostentamento a chi, uscendo dal mondo del lavoro, non ha più mezzi (regolari di sostentamento), e non deve affatto arricchire ulteriormente chi è già ricco di suo. Lo Stato (sociale) deve tutelare le persone più deboli in una società che può essere “socialista”, sociale, umana.!

  • Mattia, dimenticavo, non hai citato l’abolizione del reddito di cittadinanza, che sono soldi letteralmente buttati nel cesso. Basti vedere quanti non-indigenti (la maggior parte) lo percepiscono.

  • Signor Cadè adesso tocca a me. Non ha idea di come sia d’accordo con Lei. Se penso a un Monti, governo tecnico, legge Fornero, che sommando due vitalizi si porta a casa 20.000 euro al mese, inorridisco. Per poi andare a Venezia, in quel periodo, facendosi fotografare in un modestissimo hotel a tre stelle. Con la Fornero toccò le pensioni degli sfigati, non certo la sua. Demagogia, populismo? Certamente no, giustizia economico-sociale. Poi non è che togliendoli a lui si arricchiscono tutti gli altri, ma almeno sarebbe un segno. E vale anche per i politici di lungo corso.

  • Sono d’accordo anche con Rita. Sto ponendo la questione del reddito, ai mafiosi compresi, da diversi commenti, anche con proposte alternative, ma nessuno raccoglie.

    • Qui non si tratta di “raccogliere” la questione del reddito di cittadinanza ma di toglierlo definitivamente di torno, cosa che farà il prossimo governo, qualsiasi esso sia. Come ripetuto innumerevoli volte nel corso degli anni, non c’è niente di più iniquo del famigerato modello Isee, e l’assegno sociale va proprio a quanti, non dichiarando introiti legali, hanno un Isee prossimo o pari allo zero. E’ un premio all’evasione fiscale, solo chi non ha idea di cosa il lavoro sia, poteva partorire un simile mostriciattolo.
      E i 3.000 i Navigator assunti da ANPAL Servizi con contratto di collaborazione continuata e continuativa (co.co.co.), scadenza aprile 2021? Non è ancora ora di liberarsene? Come dice Mattia, “non ci sono diritti acquisiti”, benissimo ragazzi, la campagna vi aspetta. Troppo comodo percepire uno stipendio per stare a casa a fare niente.

  • Spendida analisi, e se Mattia avesse più tempo libero dagli studi chi sa cosa ci potrebbe donare! Matt non mi rispondere, la società ha investito in te, procedi per noi (ovviamente tu in rappresentanza di X).
    Non trovo pecche nel discorso di Mattia. Il punto due in particolare è coerente con le opinioni economiche più acccreditate, e se discussione con risvolti etici si può fare al massimo riguarda il punto 1.
    Conosco tanti pensionati d’oro, e tirano in ballo tutti le attese di vita, lo stile decoroso, il conrtratto e le attese pattuite per il futuro (nel senso di se ho fatto certe scelte ci sarà un motivo, e se vedo poi il patto tradito…) Balle, o meglio principi da tempo di vacche grasse. Lo stato di salute di un paese deve essere condiviso da tutti, cercando certo delle mediazioni, soprattutto tutelando le fragilità, ma il successo del sistema Nazione deve essere eticamente presente nelle nostre vite come un qualcosa che possiamo soppesare sul palmo della mano. Tuttavia suggerisco la mancanza di etica di un sistema in cui o si produce o si è totalmente improduttivo, pari a un morto. Perché io mi devo essere dato da fare autonomamente alla ricerca di soluzioni che dessero dignità alla mia vita, per una residua capacità produttiva, e non sono stato accompagnato da una scelta di soluzioni istituzionali? A dire il vero avevo un contratto di consulenza nello stesso ospedale pronto da firmare, suggerito dall’allora D.G., ma in questo sì, giustamente Monti disse “fuori dai piedi tutti i consulenti pensionati” che poi erano apicali riciclati con gettoni per indagini sulle cose più astruse.
    Una sorta di integrazione alla mia vitra d pensionato con un lavoro, certo, meno qualificato e sunbordinato, non usurante, l’avrei accettata.
    Ma come si fa nell’azienda agricola? Il nonno vernicia lo steccato!
    Ha senso che io debba versare al fisco per la quota extra pensione di guadagno e che questa quota debba fare un giro e tornarmi poi in percentuale come entrate pensionistiche? Non sarebbe più logica una messa a riposo percentuale, con una quota variabile di entrate per lavori connessi alla propria fascia di competenze proporzionale all’impegno concordato e profuso? Grattamento di ombellco e minor reddito per i lavativi, vecchi e giovani che siano. Il pensinamento e del resto anche l’inabilità lavorativa, anche la temporanea, a scaglioni percentuali dovrebbero essere l’unica soluzione naturale.

  • Bene, lo sto dicendo da settimane. E Rita che accoglie la proposta Bellanova, dopo averla denigrata fini a ieri. Cos’è sopravvenuto?

    • Quando è successo?

  • Doveroso un ringraziamento sentito all’ottimo lavoro iniziato da Mattia (che mi auguro davvero posegua!) che ci offre occasioni “ragionate ” di riflessione ed approfondimento.
    Il ritorno potrà essere “al futuro” proprio se sapremo , sulla base di analisi approfondite e concrete (proprio come quelle che ci propone Mattia) fuori da ogni demagogia, sapremo/sapranno affrontare e risolvere quei problemi che una cattiva “politica”, troppo attenta al proprio di futuro, ha colpevolmente operato, mettendo in secondo piano, il futuro del Paese!

  • “Quanto alla proposta della Bellanova, trattasi della tipica bestiata all’italiana che non ha eguali in nessun Paese del mondo, e che mi auguro venga fermata in Parlamento dai grillini dissidenti, sebbene non ci speri. Sono troppo attaccati alle poltrone.” La proposta della Bellanova di cui ho scritto, per chi legge, si riferiva proprio al lavoro nei campi in alternativa al reddito di cittadinanza. Secondo me tu hai seri problemi di memoria o come ti aggrada leggi e memorizzi solo quello che ti fa comodo. Non sto a cercare altri riferimenti, vatteli a cercare, altrimenti non sai di cosa stai parlando.

  • Ma no, non hai capito. Quella della Bellanova è una sanatoria fatta e finita che riguarda colf, badanti e una montagna di gente senza lavoro che così accederà a sanità e wellfare. Ne avevamo davvero bisogno. La raccolta della frutta e dei pomodori in Puglia e Campania riguarderà al massimo 5-7mila persone, mentre la sanatoria ne regolarizza 600mila!!! Cosa c’entra il reddito di cittadinanza? Anzi, in questo modo ci saranno più persone che lo prendono grazie al permesso di soggiorno. Una mossa geniale.

    • Ma perché menare il can per l’aia, quando è molto più semplice spazzar via il reddito di cittadinanza ammettendo che è stato un fallimento clamoroso. Sarebbe molto, ma molto, più dignitoso. Ma parlare di dignità con questa gente ….

  • Allo stesso tempo dice anche delle cazzate, tipo” non si può costringere nessuno a fare un lavoro che non si vuol fare.” Ma mi chiedo, non era forse una clausola del Reddito che rifiutato il terzo lavoro l’avrebbero perso?

  • Un lavoro da economista, Mattia: e sì che tu sei un ingegnere e neppure un ingegnere gestionale!
    Condivido le perplessità di Livio sulle pensioni. Ma… sento la classica obiezione: perché uno che ha versato più contributi degli altri dovrebbe prendere una pensione uguale?

  • Sì, è l’obiezione che sento sempre anch’io. E nessuno vuol rinunciare a quello che sente come un suo ‘diritto acquisito’. Io però, che ho tendenze sovversive, mi dico che la pensione è uno strumento sociale e non una forma di assicurazione privata, in cui versi e poi riscuoti. D’altra parte, se uno guadagna molto o moltissimo, e paga molte più tasse, lo Stato comunque gli offre gli stessi servizi (scuola, sanità ecc. ) che offre a chi guadagna poco o molto poco e versa molto meno all’erario. E questo non mi sembra ingiusto. Dipende tutto da quello percepiamo come “giustizia sociale”, cioè da un valore non riconducibile a modelli matematici. Però, io sono un sognatore.

    • P.S.: non intendo dire che tutte le pensioni dovrebbero essere uguali, ma che non si dovrebbero consentire sperequazioni enormi come quelle esistenti e che la prima preoccupazione dovrebbe essere quella di far sì che anche una pensione ‘minima’ sia adeguata alle necessità della vita reale.

    • Mi uso a termine di paragone perché così ho iniziato: con me l’INPS ci ha guadagnato, perché in 42 anni ho versato più contributi della pensione che ho avuto col regime all’epoca in vigore, ma se l’avessi saputo, nel mio progetto vita almomento delle scelte fondamentali? L’assunzione immediata era al momento in bilico fra Crema e l’Istituto ortopedico di Latina, convenzionato: avrei scelto quello forse. Avrei cioè trovato una soluzione che mi permettesse di versare a una compagnia privata. Già adesso i ragazzi assunti hanno la pensione integrativa inclusa nel contratto. Non saranno tutte entrate in meno per la cassa pensioni?
      Mi pare che il dilemma di Mattia, raffinato in proposta da Livio, gira, volta, discuti e disfa, lo troviamo già realizzato dal tempo galantuomo.

  • Rita, dimentichi che il reddito di cittadinanza è stata una battaglia dei Grillini, come tutti ricordiamo i compromessi con la Lega. Ora capirai che con una maggioranza come questa di compromessi ce ne sono altri.
    Dimentichi anche che i più accorti dissero da subito che sarebbe stato un fallimento. Ma altri dicevano: lasciamoli lavorare, e tu eri fra quelli. Oddio, è sempre meglio tardi che mai. Perchè io ricordo bene le clausole dell’accordo che prevedevano che al terzo rifiuto di un lavoro il sussidio sarebbe stato tolto. Ma se ci fossero state tre possibilità di impiego per ogni disoccupato il problema non ci sarebbe stato. E’ stata la misura assistenziale peggiore degli ultimi decenni. Solo quei poverini dei Grllini potevano concepirlo, e difatti i risultati si sono visti. Io sono contentissimo di averlo sostenuto da subito. Si doveva essere ben pirla a pensare che avrebbe dato dei risultati. Come quota cento che avrebbe garantito chissà quale turn over. Speriamo proprio che alle prossime politiche quegli inconsistenti se ne vadano a casa. E che quegli altri non ritornino.

    • A volte ho l’impressione di essere già nel reparto alzheimer. Continui a dire la stessa cosa da anni e io continuo a risponderti che il “lasciamoli lavorare” valeva per i primi passi, non era un assegno in bianco.
      Il più stupido in assoluto, comunque, è stato il Pd, che dopo aver visto il fallimento del matrimonio giallo-verde ha voluto provare pure lui l’ebbrezza di sposare la moglie-oca, pensando di avere maggiore fortuna.
      Eppure è così chiaro che con i grillini non si governa, si litiga stando fermi immobili sempre nello stesso punto, incartati da una vagonata di burocrazia e sommersi da ideologie vetero-novecentesche che fanno sorridere solo a raccontarle, figurarsi a metterle in pratica.

  • Hai ragione, ti ci é voluto del tempo, ma sarai la prima ad aver battuto l’alzheimer che ti ha contagiata, pur non essendo infettivo. Io non l’ho mai avuto.

    • Lo so, lo so che sei perfetto. E’ per questo che voti Pd.

  • Il morbo grillino

  • 😜

  • Curiosamente, ma assai significativamente il sig. Bressanelli, dopo aver definito “poco chiari” e “poco utili appena si scende un minimo nel merito delle questioni” termini “come capitalismo, liberismo, ecc.”, sviluppa dall’inizio (la sostenibilità del sistema pensionistico) alla fine (l’introduzione di sistemi di concorrenza e libera gestione nelle scuole secondarie, ma su questo non mi soffermo perché è solo accennato e, per di più, motivato con ragioni genericissime, che non permettono un confronto di merito: “consentire di avere una forza lavoro, e in generale cittadini in grado di capire il mondo di oggi”) il suo ragionamento tutto all’interno del pensiero economico neoliberista (pur tra molte affermazioni approssimative).
    Così egli affronta il tema delle pensioni essenzialmente come problema individuale, faccenda privata, e non come questione sociale, partendo da un’affermazione apodittica: “Il nostro Paese alloca più risorse di quanto si può permettere in previdenza sociale”. A dimostrare tale tale assunto sarebbero l’andamento demografico e il carico contributivo per le imprese.
    Ora, il primo argomento – introdotto dal consueto luogo comune secondo cui l’Italia spenderebbe per le pensioni più degli altri paesi europei, dato non corrispondente alla realtà giacché nella “spesa previdenziale” italiana sono inserite erogazioni (per esempio, la cassa integrazione) di natura assistenziale, i cui corrispondenti istituti negli altri paesi incidono su capitoli diversi e senza le quali la spesa pensionistica italiana scende di oltre 3 punti percentuali, collocandosi leggermente al di sotto della media Ue – è una riproposizione della vecchia “teoria delle culle vuote”, che contiene due madornali errori concettuali. Prima di tutto, a “mantenere” i pensionati non sono i nati in quanto tali, ma i lavoratori attivi e il numero di giovani pronti a entrare nella produzione non si è affatto ridotto in Italia rispetto a 40 anni fa; anzi, si è addirittura triplicata la cifra di quelli che restano non occupati! Ma soprattutto il ragionamento che afferma la necessità di tagliare le pensioni “perché prima c’erano 2 lavoratori attivi per ogni pensionato, oggi il rapporto è 1 a 1 e domani sarà 1 a 2” trascura una fondamentale variabile economica: la produttività del lavoro, e, nello specifico, il suo incremento. La ricchezza socialmente creata da un lavoratore oggi è, infatti, ben maggiore rispetto a quella prodotta da suo padre negli anni ‘70, grazie all’innovazione tecnologica. D’altro canto proprio una produttività del lavoro maggiore, in media, di 20-30 volte fa sì che oggi 2 milioni di agricoltori possano garantire un’alimentazione abbondante (non entro qui nel tema della qualità) a 60 milioni di italiani, mentre un secolo fa 10 milioni di contadini non riuscivano a evitare che larghe fasce di una popolazione di 27 milioni di abitanti soffrissero la denutrizione. Ovviamente non è che i contadini di oggi lavorino di più di quelli di un secolo fa; semplicemente la loro produttività è enormemente aumentata grazie al contenuto tecnologico del loro lavoro.
    Quanto al secondo, pur partendo da una confusione/sovrapposizione tra contributi previdenziali a carico delle imprese (che non sono tutti i contributi previdenziali) e costo del lavoro (che comprende altre voci), il sig. Bressanelli conclude per concludere che in Italia “il costo del lavoro [è] troppo alto”. Rispetto a chi? Alla Turchia? Direi di sì. Alla Germania? Certamente no. Cioè, il “costo del lavoro” non è “problema in sé” (anche perché ciò che è “costo” per l’impresa che lo paga, è “reddito” per il lavoratore che lo percepisce, quindi è “spesa” che genera “domanda”, “fatturato”, “ricavi”, “tasse”, “profitti”, “investimenti”, “occupazione”, ecc.), ma va visto in relazione al comparto produttivo, alla fascia in cui si colloca un paese nella divisione internazionale del lavoro, ecc. Certo, se l’obiettivo è competere in settori produttivi a basso valore aggiunto (per esempio, il tessile), è evidente che il costo del lavoro in Italia è superiore a quello del Bangladesh o del Pakistan. Ma poiché l’Italia resta una delle dieci maggiori economie del mondo e il secondo paese manifatturiero dell’Ue credo non siano quelle le economie di riferimento. Ciononostante in ambito Ue i salari nel nostro paese sono tra i più bassi.
    Ora, se la domanda è “come faccio, con le mie risorse, ad avere di che vivere una volta che non sarò più in grado di lavorare?”, che è, per l’appunto l’approccio “individuale” alla questione delle pensioni, soggiacente peraltro all’introduzione del sistema contributivo a capitalizzazione (“la pensione me la pago io, investendo durante la vita lavorativa quote del mio salario per riceverne in futuro una rendita”), non c’è dubbio che nel medio periodo, visto l’enorme diffusione del precariato, il livello dei salari dei lavoratori dipendenti (per il 70% inferiori a 1500 euro netti al mese, con il 30% che percepisce meno di 9 euro lordi l’ora) e le regole per il calcolo dell’assegno previdenziale (attorno al 50% dell’ultimo stipendio), la stragrande maggioranza di chi è entrato nel mondo del lavoro dopo il 2000 è destinato ad avere una pensione non superiore ai 600 euro (ovviamente a valore costante). Quindi il problema non è la “insostenibilità finanziaria” dell’attuale sistema previdenziale, che si risolve facilmente riducendo gli assegni (già oggi (quasi) nessuno si scandalizza che i due terzi delle pensioni siano inferiori ai 750 euro netti). Semmai il problema è se ciò sia accettabile per un paese civile. A me pare di no. Per me è chiaro che, in un paese ricco come l’Italia (per quanto estremamente diseguale sul piano della distribuzione della ricchezza) e con (per fortuna) un allungamento della vita media che porterà a un aumento della popolazione anziana, l’unico modo per garantire (e garantirci) una vecchiaia dignitosa è quello di porre la spesa delle pensioni a carico della fiscalità generale, irrobustita da una riforma tributaria fortemente progressiva (e, ovviamente, da un’effettiva lotta all’evasione fiscale, vera anomalia italiana rispetto all’Europa).
    L’affermazione “il nostro Paese alloca più risorse di quanto si può permettere in previdenza sociale” è quindi, di per sé, in termini economici, senza senso (lo sarebbe solo nel caso, ovviamente di scuola, in cui si intendesse destinare alle pensioni – o a qualunque altro scopo – un ammontare superiore a tutta la ricchezza perodotta da un paese), poiché la decisione dell’allocazione delle risorse è, per sua natura, decisione “politica”, non tecnica (d’altro canto da due secoli sappiamo che l’economia è politica non tecnica, gli stessi corsi e mnuali universitari si chiamano di “economia politica”)). Si può, cioè, naturalmente, discutere di come allocarle, in che misura a diverse possibilità concorrenti per risorse non infinite, ma questa è ovviamente una opzione “politica”, con preferenze normalmente determinate dai diversi interessi in gioco.
    Quanto alla disuguaglianza generazionale tra i redditi, essa non è frutto, come il sig. Bressanelli sembra credere, del fatto che le pensioni siano troppo elevate, ma del fatto che negli ultimi 30 anni abbiamo assistito in Italia a un gigantesco trasferimento di denaro (diciamo il 15% del Pil) dal monte salari al monte profitti e rendite, attraverso l’appropriazione degli incrementi di produttività da parte solo del capitale, della riduzione dei salari reali e delle pensioni (via innalzamento dell’età pensionabile e passaggio al sistema contributo), del forte spostamento del prelievo fiscale dai redditi più alti a quelli più bassi e della liberalizzazione estrema del mercato del lavoro. Tutto ciò ha fatto sì che oggi i giovani (salvo eccezioni ormai quasi solo dovute alle condizioni della famiglia d’origine) entrino tardi nel mondo del lavoro, in situazioni di grande e prolungata precarietà, con salari ben peggiori del passato, ecc., avendo quindi la prospettiva di trattamenti pensionistici miserabili, con rilevanti conseguenze sull’economia nel suo complesso. La questione di fondo resta, naturalmente in termini sociali, ma anche in quelli economici (per es. a fronte di un lunghissimo ristagno della domanda interna), quella di una redistribuzione dei redditi dall’alto verso il basso (curiosamente, ma assai significativamente, il sig. Bressanelli, propone sempre di ridurre salari e pensioni, mai i profitti o le rendite. Legittimo, ma niente affatto “neutrale”).
    L’esperienza italiana del secondo dopoguerra e le ricerche empiriche hanno dimostrato come non solo la produttività non sia di per sé fattore di incremento dei salari (per lo meno in assenza di sindacati forti), ma che, al contrario, elevati salari favoriscano aumenti di produttività, perché costringono le imprese a competere non abbassando il costo del lavoro, ma sviluppando innovazione di prodotto e di processo. Lo si vede chiaramente nel grafico dell’Istat, dove si assiste a un incremento impetuoso della produttività dei fattori (attenzione: ancora una volta il sig. Bressanelli usa i termini in modo un po’ impreciso, utilizzando produttività d’impresa come sinonimo di produttività del lavoro) proprio negli anni (1965-1980) in cui le lotte sindacali ottengono un innalzamento significativo dei salari (diretti e indiretti), mentre da allora inizia un declino parallelo non ancora arrestatosi.
    Più complesso è, infine, il discorso sulle dimensioni “ottimali” delle imprese, perché queste convolgono non solo fattori politici (il progetto di paese che si ha in testa), economici (il tipo di produzioni, le tecnologie impiegate, le condizioni di mercato, ecc.), storici (le caratteristiche di un sistema produttivo, gli squilibri territoriali, l’organizzazione dello Stato, ecc.) e culturali (la cultura imprenditoriale, le normative, ecc.). In generale si può dire che effettivamente il sistema produttivo italiano risente della mancanza di grandi imprese (e qui varrebbe la pena andare a vedere cosa è stato e che conseguenze ha avuto in Italia lo smantellamento dell’industria pubblica e il processo di privatizzazioni senza eguali nel mondo, salvo forse il Messico), soprattutto perché, come giustamente osserva il sig. Bressanelli, sono le grandi imprese (insieme allo Stato, se vi destina risorse) a poter investire in ricerca e sviluppo e quindi a produrre innovazioni capaci di ricadute sull’intero sistema produttivo (non è un caso che l’Italia sia fuori da tutti i settori tecnologicamente più avanzati e abbia imprese leader in settori – la moda, il design, ecc. – in cui l’innovazione ha scarse ricadute al di fuori del settore stesso), oltre a essere economicamente più efficienti per la possibilità di realizzare economie di scala. Tuttavia oggi vanno considerati almeno altri due fattori, che impongono di trattare con cautela questo assunto: l’informatizzazione spinta delle produzioni, che snelliscono e ridimensionano i processi organizzativi e produttivi, e le compatibilità ambientali, che gettano molte ombre su impianti di grandi dimensioni e, inevitabilmente, elevato impatto sull’ambiente (sebbene finora la tendenza resta quella di caricarne i costi sulla collettività e non a internalizzarli nelle imprese).

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