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ADRIANO TANGO

Signori: ecco a voi l’Italiano!

Ormai vado a ricorrenze. E la cosa mi piace, perché mi permette di rivisitare anni vissuti, visto che altri ormai chiamano storia le cose che per me sono ricordi, e va bene così!
Il 15.6.1920 nasceva Alberto Sordi, ma io l’ho incontrato ai miei dieci anni, quando lui con i suoi quaranta tondi era un animale di razza delle scene.
Anche la televisione era ormai fuori dalla culla, ma la sua figura era già cinema, mentre la sua voce rimaneva radio. L’Italia era quella del boom, e lasciamo perdere l’ubriacatura collettiva, la premessa di questo disastro; già, perché all’epoca anche i più avveduti non toglievano già più gli occhiali rosa!
Ma per me era soprattutto l’Italia nella quale la mia famiglia cambiava domicilio senza pace, quattro anni qui, cinque lì, e a cavallo fra i cinquanta e i sessanta si era trasferita a Bologna, dove, bambino spaesato proiettato in un vago progetto di adolescenza, non conoscevo ancora nessuno, e così domenica voleva dire cinema coi genitori.
Sì, l’Italia mi si confondeva in mente nelle sue culture ancora strettamente regionali, avanti agli occhi, nel gusto, nelle orecchie colpite da idiomi sempre nuovi: che fatica anche solo capire, e comunicare anche in casa con gente, i ragazzi-soldati attendenti di mio padre ufficiale, che parlavano altre lingue ancora, incomprensibili, dal Veneto al Sardo e oltre.
Ma quante accidenti di Italie ci sono? mi chiedevo.
E poi, col ronzio del proiettore alle spalle e il cono luminoso attraversato da qualche moscerino, tramite lui si metteva in scena con una fisionomia standard, ben definita, proprio L’ITALIA. Ma allora esiste! finalmente mi dissi.
Ma Sordi, l’Italiano medio, perché? Forse nella parte l’Albertone nazionale c’è entrato aprendo a ventaglio le sue carte, e poi, visto che gli veniva bene, ha affinato il personaggio?
No, nella sua enorme versatilità non c’era niente che non facesse ad alto livello. Direi che ce lo costrinsero proprio, perché quell’Italia amava civettare con la sua immagine riflessa, perché tutto sommato, finalmente ben pasciuta, orgogliosa sotto la falda del cappello dei risultati che metteva a segno, si concedeva di esporsi nelle sue fiacchezze. E anche il povero, e ce n’erano di veramente poveri, era pervaso da un tal senso del “tutto è possibile”, che si abbandonava alla risata con animo leggero, ed era risata intelligente.
Ma Alberto non era solo questo: batteva tutti all’epoca, e forse anche ora, come attore con molta leggerezza definito di genere comico. Ma era anche sceneggiatore, regista, autore e interprete musicale, doppiatore di classe…
Pochi possono dire di aver dato, come lui, la voce in diretta, nascosto dietro a un paravento, a un altro grande, Oliver Hardy, che non è certo come farlo in studio di registrazione!
Ma è nel suo primo amore, la musica, che emerge dalla laringe stessa il suo trasformismo: segnalato nelle voci bianche come soprano, diventa ancora molto giovane un basso.
Trasformismo ho detto? No, la sua timbrica aveva, credo, la completa escursione necessaria ad assumere i due ruoli, e probabilmente tutti quelli intermedi.
E nel gioco dei ruoli si sviluppa la sua capacità scenica.
Nel cinema l’immagine abbraccia uno spettro ampio, dallo “Sceicco bianco” al suo habitat naturale, la commedia all’italiana, in cui si connette con gli spettatori con tutta la sua variegata gamma e potenzialità di mezzi espressivi in mille volti, per convergere in un unico proteiforme personaggio: l’Italiano, perché è ciò che a lui chiedevamo. E lui ci sta, ci accontenta, sentendo la profonda esigenza della generazione che mi ha preceduto di riconoscersi.
Un essere tendente al servilismo quest’Italiano che ci mostrava: a caccia di protezioni per piccoli privilegi, fantasioso ideatore di vie di fuga, subdolamente ironico verso ciò che nemmeno si sogna di voler abbattere, per non rischiare di farsi male, ma anche astuto, sfrontato, o improvvisamente capace di esplosioni di coraggio, atti eroici.
E mi ritorna alla mente la voce baritonale, come quella di Alberto, di mio padre, che raramente rideva, ma per i suoi film sempre, e commentava: “Ma è proprio così che siamo, noi italiani! Ma come fa a coglierlo così bene!”
E soprattutto lo sapeva fare senza che nessuno si sentisse offeso.
Penso che noi inconsciamente lo considerassimo terapeutico, curativo come Asclepio considerava il teatro, specchio dell’anima che permetteva di districare le matasse ingarbugliate e ricostruire la nuova armonia. Già, e lui ci si calava con la serietà che sa far scaturire anche la risata.
Perché era un personaggio serio Albertone nell’intimo, dalla vita schiva, e quindi per lui era stato normale iniziare il suo lavoro secondo le regole, con studi accademici e debiti diplomi, e on the stage esibizioni sia nell’operistica che nel testo drammatico; eppure nel mondo della celluloide cesella la sua icona, ci lascia l’impronta, già tanto fortemente percepita quand’era in vita che alla morte di Albertone si provvide all’imbalsamazione della salma.
Signori, l’ultimo dei Faraoni, fu “l’Italiano”!

ADRIANO TANGO

14 Giu 2020 in Cultura

4 commenti

Commenti

  • Era il 1977, di Monicelli esce nelle sale Un borghese piccolo piccolo, tratto da un libro di Cerami del 76. Secondo molti critici “il film che segna la fine del filone della commedia all’italiana: «una pietra tombale sulla commedia all’italiana»,«una commedia incarognita dal fatto di dover fare i conti con tempi in cui è sempre più difficile vivere».
    Se durante la Commedia italiana il disagio dello specchio lasciava spazio ad una risatina complice, con questo film, il più bello con Sordi, e gli eventi politici e giudiziari di quell’anno terribile, il 77, Monicelli ci porta in un soffio ai giorni nostri. Nei corsi e ricorsi della Storia ci è ritoccata la tragedia di questi ultimi decenni.

  • Bel personaggio anche Cerami. A Crema quando venne alla biblioteca la saletta era semivuota, forse per ignoranza del valore dell’autore, perché se nella pubblicità si fossse scritto che veniva lo sceneggiatore di Benigni, allora ci sarebbero stati tutti! La storia chee tu citi Ivano nasce amara e muore disperata, di commedia ha poco, diciamo che riporta all’etimologia della parola: rappresentazione per il sacrificio di un capro.
    Sul valore di regista, e di Albertone, colgono bene i tempi, certo, ma eravamo nel 77, ancora in piena sbornia: in controtendenza quindi. No, in contrappunto.

    • Pòta Adriano, il Vincenzo Cerami fa lo sceneggiatore, ma non ha sceneggiato niente dalle nostre parti; ma se fosse stato il figlio del farmacista, una qualsiasi di Crema Centro, provetto regista teatrale, anche dialettale, ci sarebbero state le sciùre cittadine ad ascoltarlo e fare il pienone. Ci fosse stata la prima pagina del “Nuovo Torrazzo” con l’invito del Vescovo a recarsi in biblioteca per ascoltarlo, il Cerami, bisognava portarsi la seggiola da casa o restare in piedi. E’ un peccato che quelli importanti che vengono giù (si dice così, anche se la cittadina fosse su, nell’alto cremasco), e ci raccontano qualcosa, il pubblico è scarso. Poi passaparola e non viene più nessuno. E restano i figli dei farmacisti a fare gli importanti.

  • Albertone, un grande!
    La sua perfetta performance ne “I vitelloni”, bianco e nero, per la regia di Fellini nel 1953 (il suo terzo film!), in un personaggio che “non fa ridere” affatto, ma delinea in modo davvero “somigliante” l’italianuzzo cialtrone, mammone, che tira a campare in modo tanto inconcludente quanto moraleggiante, tanto diffuso nella “provincia” italiana.
    Io me lo ricordo per gli appuntamenti della domenica mattina alla radio, con il suo “…Sso Mmario Pio, pronto chi parla, ‘nchi parlo io?!” con i “compaggnucci della parrocchietta”!
    Si ascoltava la radio con curiosità e attenzione, la “rete azzurra” e la “rete rossa”, niente “réclame”, ed al pomeriggio “….siamo Febo Lilialna e gran cassa! Ebbravo il fantolino ….”.
    Nostalgia canaglia!

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