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MARINO PASINI

UN NERO DI ANNI. DALLA VAL SERIANA AL LAGO MAGGIORE

Dopo un nero di anni, misteri irrisolti, bombe sui treni, alle stazioni, nelle piazze, terroristi e politici fetenti, il pistarolo Marco Nozza, finalmente terminò il suo libro “Hotel Meina”. La prima strage degli ebrei in Italia. Era luglio ’93. Nozza, bergamasco, cronista di razza del “Giorno”, l’unico di razza rimasto al giornale dell’Eni, altri erano passati al “Corriere”, a “Repubblica”, è uno dei pochi giornalisti a cui Montanelli ha fatto la corte. Lo voleva con sè, prima al Corrierone, poi al “Giornale Nuovo”, e ci mancò poco che Montanelli gli disse, con la mosca al naso: resta pure a marcire al “Giorno”, allora! E forse gliel’ha detto. Montanelli non prese bene il rifiuto di Nozza, che ben conosceva; insieme avevano scritto la biografia di Garibaldi, e il cronista bergamasco era esperto come pochi di giudiziaria, navigava nelle procure, e ha svelato intrighi, calpestato tracce e ombre dei tanti, troppi misteri che negli anni ’70-80 hanno insanguinato, truffato l’Italia e gli italiani.

Nozza s’infilò gli scarponcini, e uscì dalla sua casa di montagna, una villa-castelletto dipinta di bianco, a Dorga, alta Val Seriana. Qualche tornante e parcheggiò l’auto, al Passo. Si avviò verso la Malga Cornetto, poi al Cassinelli, le due balconate sui paesi Dorga e Bratto disseminati di ville, giardini, alberi di alto fusto; osservò Cima Pora, Monte Scanapà, le faggete, i puntini gialli dei maggiociondoli, la pietra dolomia del gruppo della Presolana, che era sgombro da nubi. Lo aspetta dopo la doppia fatica, la scrittura degli ebrei massacrati e gettati nel lago Maggiore e la salita nel bosco, un piatto fumante di tosèi, i caramelloni di magro, oppure gli scarpinocc di Parre, al ripieno di formaggio.

“L’8 settembre ’43, era un mercoledì – scrive Marco Nozza – faceva caldo, gli sfollati erano saliti sul Vergante a vendemmiare e a fare incetta di mele…I più giovani si erano tuffati nelle acque del lago, poi nel tardo pomeriggio avevano inforcato le biciclette e diverse comitive si erano incrociate sulla statale del Sempione tra Arona, Meina, Lesa, Belgirate, Stresa, Baveno…Il traffico era minimo, la strada pressochè sgombra di auto, solo biciclette, qualche calesse, qualche camionetta militare. Le poche auto che avevano il permesso di circolare andavano ancora a carbonella”.

 

Nel 2017, con il libro di Nozza in saccoccia ho ripercorso, nel caldo boia di luglio, le tappe del massacro degli ebrei sul lago. Durante la guerra, sulla sponda “ricca” del Lago Maggiore, quella piemontese, funzionava a regime la linea ferroviaria Milano-Arona-Stresa-Domodossola. Fu per quello, forse, che tanti milanesi si riversarono sul lago, scappando dai rastrellamenti, le bombe, dal caos in cui era piombata la metropoli. Il lago divenne il rifugio, il dormitorio, il luogo d’attesa aspettando che la bufera passasse, in un’ora circa dalla metropoli. “I capifamiglia – scrive Nozza -, profittando della comodità della ferrovia del Sempione, pur di non perdere il posto di lavoro facevano i pendolari”, da Milano al lago e viceversa. Stanze, cantine, corridoi, solai di cittadine ridenti come Baveno, Stresa, erano occupate da sfollati. In più, nel ’43 arrivarono tanti ebrei, da Milano, pure da Salonicco, e così gli alberghi signorili fecero il pieno. Ma era una vacanza falsa; il silenzio da calma piatta del lago nascondeva la tragedia in arrivo.

Dalla stazione ferroviaria di Stresa, a piedi ho percorso i vari chilometri della strada del Sempione, direzione Arona. Dopo ville storiche, in località Pontecchio, arrivai alla casa cantoniera, dell’Anas, dove abitava nel ’43 Ernesto Giuliani, che proprio quell’anno compiva 43 anni e fu il primo testimone dei corpi gonfi d’acqua vicino alla riva, gli ebrei ammazzati e poi gettati dalle barche nel lago.

“Erano le sei di mattina, la moglie del cantoniere partiva a quell’ora in treno per andare a raccogliere il riso nella campagna novarese. Lui scese nel pollaio per dar da mangiare alle galline. Gli scappò l’occhio verso il lago, e vicinissimi alla casa cantoniera vide due corpi che galleggiavano”. La notte precedente. altri ebrei furono uccisi, legati col filo di ferro e gettati nel lago.

 

Camminare sulla strada del Sempione è una follia. Non lo fa nessuno. Anche le bici sono rarissime. Non c’è spazio, la riga bianca arriva a bordo delle cancellate, i muri delle ville, lo scarto fra l’asfalto e lo sterrato è minimo, poi trovi o il fosso o recinzioni, o case a ridosso della strada. Sfrecciano i camioncini degli artigiani, le motociclette, e bisogna passare da una parte all’altra della strada, prestare attenzione alle curve cieche. E pensare che proprio sulla strada del Sempione, a fine Ottocento, inizi Novecento hanno costruito fior di ville neoclassiche, fasti di un passato sepolto, dimenticato e cariato dal tempo e dall’incuria, con cartelli arrugginiti con scritto “Vendesi”, il numero di telefono dalla scritta scolorita, che si legge a fatica. Superata una villa costruita nel 1855 dai nobili Faraggiana; s’incontra villa Marcello, noto costruttore di dighe; villa Mondadori, dove Arnaldo Mondadori usciva ogni mattina in calesse per recarsi al lavoro in un’altra dimora, dove si riuniva la redazione, spostata al lago. Poi, villa Kitzeroff, un via vai di case dal passato glorioso, tutte affacciate sulla strada rumorosa, le sterpaglie che hanno preso possesso dei giardini, neanche un americano, arabo o russo disposto a comperarle, che sono in offerta speciale, ma da rimettere in sesto, però.

Finalmente, eccola la casa cantoniera, dipinta di rosso, uguale con lo stampino alle abitazioni Anas sparse per la penisola. E’ in forte stato di abbandono, la recinzione squarciata. Salto dentro al giardino per vedere meglio il lago. Con quel rumore, il troppo tempo trascorso, anche i fantasmi  fanno fagotto. Ma con un pò di sforzo, la tragedia è ancora lì, la sua assurdità, che non può essere dimenticata. E ricaricando l’immaginazione, puoi sentire il rombo delle motociclette, dei side-cars dell’avanguardia del Battaglione Adolf Hitler, che domenica 12 settembre ’43, festa del SS.Nome di Maria Vergine arrivò a Stresa, la città dei fiori, con la vista delle tre isolette davanti, tanto care ai turisti. Pure mio padre (tante gite nella sua vita non più delle dita di una mano), visitò in viaggio aziendale, in corriera, le isolette di fronte a Stresa. Posseggo una foto del gruppo: papà  in camicia bianca, è il più alto del gruppo degli operai, un bell’uomo che sorride, da triste, la giacca a tracolla, che aveva messo il vestito bello.

 

Poco dopo la casa cantoniera si arriva a Meina, ma l’hotel che dà il titolo al libro di Marco Nozza, non c’è più. E’ stato abbattuto;  si trovava nella piccola piazzetta del paese rivieresco, che contò 16 ebrei in totale ammazzati, poi custoditi per ore dal lago silente. Alcuni ebrei furono arrestati proprio all’hotel Meina, altri alla Villa Novecento del paese. Altri ancora all’hotel Sempione, ad Arona. Gli ufficiali del battaglione nazista requisirono gli hotel di lusso, come il Regina a Stresa, e il Beau Rivage a Baveno, la villa Castagneto della famiglia ebrea Luzzatto. Baveno divenne il quartier generale del battaglione tedesco.

 

A Meina circola un’altro fantasma, piccoletto, un pò curvo, mai che ti guarda in faccia, le mani intrecciate dietro la schiena, o in tasca del cappotto. E’ Enrico Cuccia, l’ex patron di Mediobanca, che non parlava mai con i cronisti, neanche a pregarlo in ginocchio. Da buon borghese milanese che non ostenta, che non bauscia, girava sempre con lo stesso cappotto. Uomo garbato, riservato, d’altri tempi. Cuccia era un gran lavoratore, un fracco di ore nel suo ufficio di fianco alla Scala e poche concessioni allo svago. Curiosava alla Hoepli, alla Rizzoli in Galleria, e l’amata musica classica, poi, spariva a casa. Qualche fine settimana lo si  vedeva passeggiare solitario a bordo lago. Con i tumulti della finanza, le pressioni di Sindona, la politica corrotta, l’acqua del lago doveva essere un balsamo riposante, acque silenziose, rispettose che dovevano assomigliare al suo carattere. Nonostante sullo sfondo del lago, a sinistra da Meina si staglia una delle più selvagge valli alpine d’Italia, la Val Grande.

Il Lago Maggiore era lo svago di un’altro italiano, un’italiano raro, l’eroe borghese Giorgio Ambrosoli, avvocato e commissario liquidatore della Banca Privata di Michele Sindona. La famiglia Ambrosoli ha villa e un bel giardino a Ronco, frazione sopra Ghiffa, il paese dei cappelli, tra Intra e Cannero Riviera. A Ronco, nel suo amato giardino, Ambrosoli è ora sepolto, e un giorno sono salito al paese, a deporre un pensiero, un’immaginaria stretta di mano, stringendo la sua cancellata di casa, perchè Ambrosoli, è stato un italiano, per cui si è orgogliosi di essere italiani. Non capita spesso, ma le eccezioni ci sono. Un esempio di onestà, pagato a caro prezzo. A Ronco di Ghiffa, l’avvocato Ambrosoli che fu ammazzato da un killer arrivato apposta dagli Stati Uniti, passava i pochi momenti di vacanza dal lavoro sul lago, con i figli. Possedeva un piccolo gommone, e partiva con la famiglia per escursioni. Quel giorno che son salito a Ronco, vidi un gruppo di vele bianche sul lago, qualche gommone, tirava una brezza tesa, un giorno di primavera che annunciava l’estate. Poi, visitai il museo dei cappelli a Ghiffa. Da farsi, anche un’altra scarpinata piacevole, salendo da Stresa a Gignese, bel paese famoso per gli ombrelli, con museo visitabile. Ed è per questo, perchè a Gignese si fanno ombrelli,  racconta il proprietario dell’osteria Da Dre’ di Arona, che nel corso del passeggio dei negozi, a volte, si vedono centinaia di ombrelli sospesi, a far decorazione nel centro di Arona. Svelato almeno un mistero, il perchè degli ombrelli: per altri misteri italiani, c’è ancora da aspettare…

Ma l’escursione altamente consigliabile, è il sentiero L1 che da Stresa sale fino ai 1491m di altitudine del Mottarone. Si passa attraverso vari borghi, è una salita faticosa, ma la vista dal Mottarone spazia su tanta bellezza. Ripaga la fatica.

La sponda lombarda, mi disse l’oste di Arona, non è una riva stracciona, ma povera sì, rispetto alla sponda piemontese di Stresa, Arona, Baveno, villa Taranto, Pallanza, Cannero Riviera, Ascona, Locarno. Eppure, oltre al bel museo delle bambole al castello di Angera, Luino è patria di Piero Chiara, e di un poeta, Vittorio Sereni che il giorno di capodanno buttò giù dei versi, cupi e bellissimi:

Dentro un nero di anni. / Se ne scrivono ancora. / Si pensa ad essi mentendo / ai trepidi occhi che ti fanno gli auguri / l’ultima sera dell’anno. / Se ne scrivono solo in negativo / dentro un nero di anni / come pagando un fastidioso debito / che era vecchio di anni. /…/ Nemmeno io volevo questo / che volevo ben altro. / Si fanno versi per scrollare un peso / e passare al seguente. Ma c’è sempre / qualche peso di troppo.

Con i versi di Vittorio Sereni letti sul treno che  dopo Arona abbandonava il lago, staccai dalla mia gita, da Marco Nozza e le sue montagne e il suo libro, la casa cantoniera dell’Anas, i corpi gonfi degli ebrei a galleggiare sul lago, i misteri d’Italia, rimasti sepolti dentro a un nero di anni.

MARINO PASINI

08 Lug 2020 in fascismo

16 commenti

Commenti

  • Ma che fertile ingegno! Produzione a ritmo bigiornaliero! Lo gusto con calma dopo i “doveri balneari” (bagno con la coniuge). Penso che Cremascolta potrebbe organizzare una raccolta degli scritti a carattere antropo-geografico-storico di Marino , in versione ebook e stampa.

    • E letto con calma confermo. Che poi se vuoi si potrebbe parlare anche del tuo stile, ma non a tutti piace essere analizzati. E scommetto che se scrivi altro cambi stile.

    • Bell’idea brother Adriano, anch’io apprezzo il modo di scrivere ricco assai di contenuti sempre agganciati alle esperienze personali, quanto per nulla paludato di Marino!

  • Caro Marino, sia il Lario che il Verbano meriterebbero più attenzione da parte nostra, pari almeno a quella riservata loro dagli stranieri. Tra l’altro, sono anche laghi, con le loro ville maliose e i loro percorsi all’inglese nel verde, molto “risorgimentali”. Soprattutto per le residenze e le vicende avventurose di diversi personaggi di certe famiglie dell’aristocrazia milanese. Per non parlare di parecchi protagonisti della vita culturale e musicale, soprattutto lirica, di quel tempo, come alcune primedonne, cantanti e danzatrici (bellissime), animatrici della vita meneghina tra la Scala e i Teatri nei primi decenni del “secolo romantico”, che su questi laghi d’estate soggiornavano, ricevevano ospiti illustri e a volte tramavano complotti, quelli sì veri, anche molto rischiosi.
    Grazie ancora, Marino.
    Vorrei però, a proposito di laghi, spezzare una lancia a favore del Benaco, che non è solo quello di Gardaland, dei camping affollati, dei turisti sandaluti (e lo dico soprattutto a Ivano). Anzi, due lance.
    La prima: Sirmione. Non fermatevi al paese sotto. Arrivate a San Pietro in Mavino. Godetevi la punta della penisola dalle Grotte di Catullo. Magari, scesi sotto, fate una nuotata oltre i lastroni, però quando sono sommersi, al largo, sotto la villa romana. Meglio evitare agosto. Ottimo settembre inoltrato. Non credete a quelli che dicono “Sirmione” ma poi intendono “Colombare”, “Lugana”, “Brema”.
    La seconda: il triangolo di lago tra Capo Reamol, lo sperone del Pier e Tempesta sull’altra riva. La mattina presto, col Pelèr almeno a 4 beaufort, diciamo 15/16 nodi, niente di estremo, però con tavoletta corta e vela ridotta. Quello è il vero Garda, profondissimo, tra pareti rocciose a picco, prima che smetta il Pelèr e cominci l’Ora. Godetevi la partenza dall’acqua, la perfetta solitudine tra onda e cielo, il buio dei 350 metri sotto di voi.
    Per i più pigri, meglio una barca in legno, di buona chiglia, a remi. E senza motore: lì, in alto lago, oltre il confine trentino, is est verboten.

    • Caro Pietro, il Lago di Garda lo frequento, da Lazise a San Vigilio a piedi, e talvolta se c’è l’acqua alta, pazienza, si va avanti; Limone, Tremosine, la Gardesana occidentale che sente il lago, è montagna morbida, e a Limone c’è la casa di Padre Comboni, fatto santo, anche se mi frega poco, perchè alla santità non credo, e ce ne sono troppi di santi dimenticati, e santi fatti e in previsione che mi fanno incazzare. Da Riva del Garda, con il Pavan, il sentiero che all’inizio è un affaccio da urlo, si arriva al Lago di Ledro. Torbole c’è un vento birichino, e gli windsurf vanno che è un piacere. L’unico paese che non conosco è Malcesine. Gli altri, da ovest a est li conosco, come Sirmione della Fracci, le limonaie di Gargnano, e mi è capitato di vomitare in acqua su una barca in mezzo al lago, perchè capita che a una certa ora arriva il vento da Torbole, e la barca comincia a ballare. A Padenghe cammino fino a Moniga e poi mi butto (anzi mi buttavo nel lago, ora, con il depuratore che non funziona bene, me ne guardo bene). A Manerba c’è una spiaggetta frequentata dai gay, con rocce bianche e gabbiani: uno spettacolo. Le montagne della Gardesana sono frequentate solo dai tedeschi, i nordici, ed è un peccato. Il Lago di Garda è il lago più solare che abbiamo: un quasi mare, che in certi punti non vedi la sponda opposta. Verde-azzurro nel veronese, e più scuro sul versante bresciano.
      Il Garda è un lago parecchio cremasco, e sarebbe giusto che chi lo conosce, che conosce anfratti, storie, ne parli, ne racconti.
      Caro Adriano, la tua generosità è un fatto. Sei uno spontaneo, e lo apprezzo. Credo, comunque, che Cremascolta faccia meglio a impegnare i suoi risparmi nella Sanità, nelle onlus che distribuiscono alimentari alle famiglie in difficoltà, piuttosto che spendere soldi per un libro cartaceo dedicato alle storie del sottoscritto, che non importano che a qualcuno. La letteratura è un mondo d’invidiosi, di ego smisurato, e di mediocrità, e qualche talento, non frequente. E di talento non ne ho. Grazie, comunque Adriano.
      Caro Ivano, hai ragione: Padernello è un bel posto, vale la gita fuoriporta. La bassa bresciana ha le sue perle, non molte, ma qualcosa c’è. L’Oglio, il festival estivo, per esempio, che conosci molto meglio di me. Una gran bella idea. Sta il fatto che ho mangiato troppa terra piatta, troppo a lungo, e la pianura mi ha stancato, a parte le città come Milano che amo, i borghi, e qualche eccezione del paesaggio naturale: il Ticino, il Po, Padernello, le risaie della Lomellina. D’inverno l’umidità che ti serpeggia addosso, corrode (e per fortuna che i nebbioni son spariti); d’estate l’afa, le zanzare su cui potrei scrivere storielle e fughe e serate rovinate da quella mezz’ora tremenda quando le zanzare ti si appiccicano addosso, e hai dimenticato di proteggerti la pelle.
      D’estate resta in pianura, nella nostra pianura dove il granoturco è padrone del paesaggio, chi non può andar via, oppure chi è ormai mezzo fossile del paesaggio. In attesa di diventare fossile del tutto.

  • Mi inchino alle vostre competenze. Prossimamente mi attrezzerò con palloncini aerostatici e bigliettini attaccati alla cordicella per parlarvi!

  • Beh, senza dubbio esiste raffinatezza e storia anche sul Benaco. A Sirmione, sulla strada che porta al Lido delle bionde, bel titolo godereccio,con popolare pizzeria terrazzata fronte lago, si incontra, dove il viale si apre in piazzetta, l’ingresso al Villa Cortine e prospiciente la casa dove soggiornava Maria Callas. I lastroni poi, sotto le grotte di Catullo, sono belli anche emersi. Anche per me è piacevole una nuotata. Poco distante Gabriele d’Annunzio fa sognare ancora adesso, simboli militari, Mas e prua di nave minacciosa verso il lago a parte. Magari il cavallo blu di Paladino no. Ma forse sono i ricordi giovanili e goliardici che mi rendono popolare il lago di Garda, in vacanza da parenti e con parenti a Maderno Toscolano, senza peraltro mai visitare la valle delle cartiere con le sue orchiedee, scoperte accompagnando i bambini in gita scolastica pochi anni fa. Hai ragione Pietro, anche il Garda non è niente male. Invece rispetto ai tedescotti birrazzati riconosco che stessa etnia l’ ho osservata dare il meglio di sè, forse era vino, sulla terrazza di un hotel sul lungomare di Lerici. Mai visto un matrimonio tanto alcolico.

  • Mi scuso, ma la villa a Sirmione, patria di terme e ora delle gelaterie è della Callas non della Fracci.

  • Fracci mi era sfuggito, non volevo intenzionalmente correggerti.

    • Che poi era del marito, Giovanni Battista Meneghini. So che ricordarlo, invece di lodare l’arte della Callas, è da borghese che non riconosce alcuna trascendenza o valenza artistica, oltre quella del profitto, da borghese privo sia di misticismo che di grandi visioni, che si aspetta solo che la morte si dimentichi di lui, non potendo certo contare su una resurrezione. Ma la Divina, la Violetta, la Medea, la Turandot gorgheggiava e acuteggiava nei suoi artistici e sublimi esercizi lirici, qui a Sirmione, in oltre 800 metri di villa a tre piani, più il parco e il giardino, costata oltre sessanta milioni di lire settant’anni fa solo per la parte edilizia, una villa donatale dal marito, di ventotto anni più vecchio di lei e arricchitosi con la borghesissima industria del laterizio. Il quale marito, proprio in questa villa, si vide presentare dalla moglie, un giorno del 1959, Aristotele Onassis, che di anni in più della Divina ne aveva “solo” diciassette. E che di ricchezza borghese era uno degli insuperati protagonisti del momento. Dopo la scenata, la rottura, la separazione e tutto il resto, la villa fu venduta, frazionata, a dei privati e, successivamente, entrò nel giro dell’ospitalità alberghiera sirmionese.
      Comunque, meglio l’Ottocento, meglio le Divine di allora: la Turina, la Pasta, la Grisi e le altre eroine dei palcoscenici romantici.
      Adesso, però, ci sarebbe forse qualcosa da dire su Crema e sulle questioni cremasche, così, tanto per discutere con un po’ di impulso.
      Per esempio, su questa storia degli Stalloni. O sulla neverending story dell’Università o di ciò che verrà dopo. Oppure su qualcosa d’altro, diciamo pure dalla protesta alla proposta, visto che magari, chi lo sa, qualcosa su cui protestare o qualcosa da proporre ci viene forse in mente.

  • Rimpicciolisco sempre di più

  • Rispondo a Pietro, che vorrebbe parlare di Crema e ha ragione, perchè questo spazio è cremasco, e dovrebbe occuparsi di faccende soprattutto locali.
    Crema ha avuto un’antica orgogliosa storia, importante, e un declino da cui non si è mai più risollevata. Crema come tutte le cittadine non capoluogo di provincia soffre di frustrazioni, d’inconsistenza, e desidera essere una città vera, anche se non lo è, pure per ragioni pratiche, realistiche. Per lunghi anni non ha avuto un teatro, ha avuto di recente una multisala (ma con una programmazione pari pari a quella di Romano di Lombardia); ha una stazione ferroviaria di campagna, un ospedale che rischia di diventare un’altra dipendenza cremonese; ha perso il tribunale, e a fatica tiene tutte le scuole superiori. Ha perso la filiale universitaria. Ma diciamo la verità: da quando Milano ha bonificato le aree dismesse, trovato spazio alla Bicocca, all’area ex-Pirelli, non ha più bisogno di decentrare le sue facoltà universitarie, se non in centri più importanti di Crema, come Brescia, Piacenza, oppure riprendersi tutti i suoi corsi universitari. Tutti i piccoli centri, simili a Crema come numero di abitanti, Fidenza, Voghera, sognano l’Università, perchè avere una facoltà universitaria significa avere giovani, contare qualcosa, studenti che arrivano da fuori, “eccellenze” che danno smalto, che sono balsamo alla frustrazione culturale. E’ giusto, comprensibile. Ma la realtà è ormai cambiata. I piccoli centri in Italia non hanno soldi, non hanno chi investe, non possono permettersi di attirare capitali, investimenti, come può permettersi Brescia (200mila abitanti), pure Vigevano (oltre 60mila), o Busto Arsizio (oltre 80mila), le ultime due città non capoluoghi di provincia ma proiettate sulla metropoli con strade, ferrovia, nell’area metropolitana di Milano.
    Crema ha ottenuto in questi anni recenti un solo risultato: una strada più veloce che la collega con la metropoli. Solo i cremaschi pigri e soloni non hanno ancora capito che i 35km che sono niente, per un anglosassone, sono già, per ragioni pratiche parte di un futuro, l’unico possibile per Crema e il cremasco, di essere parte dell’area metropolitana. E sarà così; non a breve. Ma è l’unica sua speranza. Crema deve sganciarsi da Cremona, da cui è lontana, che la colonizza, e il cui legame è mortifero, e la costringe ad essere niente di fatto.
    Ma non sono ottimista: basta vedere come vanno le cose a Crema: Ci sono cantieri fermi da oltre 40anni. Vicino a Porta Ombriano c’è un cantiere che dopo un’eternità ha messo in piedi delle impalcature, ma ora è tutto di nuovo fermo: la scuola cattolica dei Sabbioni, lo scempio costato un sacco di soldi, e inutile, con i tempi cremaschi resterà così fino alle nuove guerre puniche del futuro. Il treno a Casaleeto Vaprio s’impianta perchè deve attendere l’altro che arriva, altrimenti non si passa. L’unica università che resterà in piedi sarà quella per gli anziani. L’UniCrema. I negozi soffrono di brutto, e anche nelle vie del passeggio, non sono pochi i cartelli con scritto affittasi o vendesi. Crema ha una fortuna di cui è solo parzialmente consapevole: che è a mezz’ora, quarantacinque minuti da cinque città più importanti. Bergamo e Milano, per esempio. Cardiff, in Galles, per fare un esempio che pare cretino, ma non lo è, ha un aereoporto, e dista circa 40minuti dal centro città. Anche Crema ha l’aereoporto, anzi ne ha due: Linate e Orio al Serio, entrambi raggiungibili in non più di 40-45minuti.
    Quando la politica cremasca capirà questo sarà un passo avanti verso qualcosa.

    • Non saremo tu e io, Marino, e temo nemmeno CremAscolta e forse nemmeno l’attuale reggenza municipale ormai quasi avviata a fine mandato e neppure i numerosi e volonterosi (e discordi) suggeritori di una città futura, di una Crema vaticinata e ideale, a poter effettivamente incidere nella realtà locale delle cose e dei fatti, orientando l’evoluzione della situazione cittadina e del suo territorio circostante in una direzione invece che in un’altra. Ben altri impulsi, interessi e condizionamenti tracciano il nostro percorso.
      Ciò posto, in termini del tutto teorici, astratti e magari pure velleitari, forse si potrebbero scambiare liberamente alcune opinioni sul modello di città e di territorio che ciascuno di noi riterrebbe almeno di potere, sia pure oniricamente, desiderare e auspicare in proposito.
      Personalmente, solo per fare un esempio, non punterei troppo su indici e parametri quantitativi e dimensionali, sulle cosiddette economie di scala, su dinamiche estensive e incrementative, su sviluppi derivanti da agglomerazione, inclusione e proliferazione. Forse il puntare, al contrario, su elementi qualitativi, su scelte di equilibrio, armonia e misura, su opzioni di tutela, contenimento e identità potrebbe nel tempo consentire di ottenere risultati e soddisfazioni maggiori per Crema, per i cremaschi e per i beni materiali e immateriali che ne assicurano la continuità e la valorizzazione comunitaria, civile e storica.
      È solo un’idea, un concetto. Ma da questa impostazione potrebbero derivare linee di azione significative. E potrebbero pure nascere quelle attenzioni, prudenze e cautele necessarie per non commettere errori poco rimediabili, con effetti molto pregiudizievoli. Potremmo infatti imparare dagli scempi e dai deragliamenti del pessimo secolo esauritosi due decenni fa, discernendo ciò che tende a illuderci più facilmente da ciò che più opportunamente può giovarci.
      Per vivere meglio, dobbiamo sempre aumentare e aggiungere? Per stare bene, non è che forse ci convenga, qualche volta, anche evitare e togliere?

    • Sono consapevole del fatto che potrebbe sembrare provocatorio chiedere se non sia meglio togliere invece che aggiungere, dopo che la nostra città si è vista privata del rango di provincia, di un importante centro di incremento ippico di livello nazionale, del tribunale, ora forse di una dipendenza universitaria, domani vedremo. Siamo in effetti una città ciclicamente sotto attacco e a rischio di ridimensionamento delle proprie strutture ospedaliere e di tutela sanitaria in genere, per non parlare di certe operazioni sul fronte degli accorpamenti scolastici e di ulteriori avvenimenti pregiudizievoli, dei quali il nostro Marino è spesso dolente portavoce su questo blog.
      No, ovviamente il togliere invece di aggiungere non si riferisce, ad esempio, ai necessari presidi ospedalieri e di medicina territoriale. Sul tribunale, è ben vero che la salute riguarda tutti e i processi civili e penali solo alcuni, però va detta la stessa cosa, nel senso di un elemento importante che non avrebbe dovuto esserci sottratto.
      Ciò posto, il discorso su tutto il resto ha notevoli spazi e numerose possibilità di esplicazione e sviluppo. A partire dal dato demografico. Che è qualcosa di essenziale, in senso numerico ma anche, diciamocelo senza false reticenze, in termini di composizione del dato. Per non parlare del consumo di suolo rispetto al recupero dell’esistente. Approfondendo pure la questione dei collegamenti logistici, posto che il problema esiste e la soluzione no, per cui il tema non può essere eluso. Inoltre, più in generale, l’aspetto degli insediamenti produttivi e delle zone destinate a queste attività va visto bene. Come quello delle pratiche intensive di agricoltura e allevamento. Insomma, tribunale e università sono argomenti importanti ma poi di cose su cui riflettere ce ne sarebbero parecchie, per provare a capire se aggiungere o togliere.
      Fermo restando che, lo ripeto, potrebbe trattarsi solo di un esercizio teorico.

  • Abbiamo perso, è vero, la nostra… filiale universitaria (non certo, come bene dici tu, per colpa nostra), ma io confido ancora che il progetto Righini possa decollare: se dovesse accadere il miracolo – magari proprio grazie al ricorso al Recovery Plan (non ha questo fondo come prima destinazione proprio una digital economy?). A settembre dovranno essere pronti i “progetti” per il suo utilizzo: Giovanni, non è il momento di dare al progetto (sempre che ne abbia bisogno) le ultime rifiniture per poi presentarlo al Consiglio dei Ministri?

    • A molti cremaschi la sottrazione, l’isolamento piace. Si sentono più mezzacampagna che mezzacittà. E’ questa mentalità che ha permesso lo sviluppo della ferrovia a Treviglio, e lasciato un trenino dei puffi al borgo-mercato di Crema. All’Amministrazione di Crema non interessa che i cartelli stradali posizionati a Ombriano che indicano Milano a 40 o 41 chilometri sono ridicoli, un insulto alla matematica di base. Da Crema Nuova, ben dentro la cittadina, Milano dista 35km, quindi da Ombriano, anche meno. Non si sa la matematica, figurarsi insegnare gli algoritmi. Basta una letterina all’Anas e farli rimuovere, quei cartelli, insieme a quei cartelli marroni che indicano che il cremasco è una strada del gusto cremonese (l’ultimo visto è al sottopasso che da Bagnolo Cremasco, immette nella cittadina). Ma i crremaschi forse non sanno neppure di esistere, come territorio. Amano l’inconsistenza, ci si crogiolano dentro. La mentalità è quella agricola. A molti anziani sta bene così; ma a molti giovani, le menti più aperte, più intraprendenti, le menti migliori, credo di no. E Crema continuerà a perdere il meglio, sempre di più.

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