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PIERO CARELLI

Covid-19, appunti per ripartire

Non c’è vento favorevole
per il marinaio che non sa
a quale porto approdare
(Seneca)

 

 

Il virus del neo-liberismo

Mi permetto di segnalare il contributo a mio avviso più mirato e nello stesso tempo più coraggioso che ho letto in questo interminabile lockdown: si tratta del saggio dell’economista francese G. Giraud apparso sulla rivista “La Civiltà cattolica”, anno 2020, 4 aprile.
È un atto di accusa senza mezzi termini, addirittura spietato, contro “l’ideologia dello smantellamento del servizio pubblico”, un’ideologia che ha fatto “pagare un prezzo pesantissimo in termini di vite umane”, che ha trasformato il virus “in una catastrofe senza precedenti nella storia dell’umanità”.
Un atto di accusa contro la deforestazione selvaggia che ci ha messo “in contatto con animali i cui virus non ci sono noti”.
Lo scenario prossimo venturo? Giraud non ha dubbi: siamo in presenza di una delle tante pandemie con cui dovremo convivere, in particolare con “pandemie tropicali” che il riscaldamento globale non farà che moltiplicare. Lo scongelamento del permafrost determinato dal riscaldamento climatico, ad esempio, non farà che diffondere “pericolose epidemie, come la ‘spagnola’ del 1918, l’antrace”.
Il messaggio di Giraud? Se i Paesi occidentali sono stati costretti a ricorrere alla strategia più antica, quella cioè del confinamento – strategia che ha messo in ginocchio l’economia con danni ingentissimi – non devono accusare nessuno, ma solo se stessi.
Già: non si tratta di accusare nessuno, ma di riflettere sul tipo di cultura che ci ha portato a questo disastro.
I problemi che pone l’economista francese toccano da vicino il nostro modello di produrre e di consumare, il nostro nostro stesso modello di abitare sul pianeta Terra.
Sono problemi da cui partire se vogliamo… ripartire col piede giusto, senza ripetere i colossali errori del passato.
Sotto accusa è un certo tipo di cultura che si è affermata negli anni ‘80, una sorta di virus che ha contagiato anche le stesse socialdemocrazie: il virus del neo-liberismo, della lettura forzata della “mano invisibile” del mercato (forzata perché secondo Smith lo Stato avrebbe dovuto svolgere comunque un ruolo rilevante).
Una cultura in omaggio al mantra “privato è bello”, privato è più efficiente”.
Una cultura che ha sacrificato gli stessi diritti fondamentali per cui lo Stato è nato: il diritto alla vita e il diritto alla salute.
Ma all’origine dello smantellamento dello Stato c’è stato pure un’altra cultura: la cultura, se ci riferiamo all’Europa, delle regole imposte da Bruxelles.

 

 

Tagli alla sanità

L’austerity c’è stata se è vero che dal 1992 abbiamo varato finanziarie “lacrime e sangue”, ma se abbiamo tagliato decine di miliardi nella sanità, è dovuto solo a una nostra decisione politica.
L’Ue (quindi anche noi) ci ha chiesto di far quadrare i conti pubblici, ma siamo noi che non abbiamo avuto il coraggio di affrontare di petto l’evasione fiscale (più di 100 miliardi ogni anno); siamo noi che in omaggio alla teoria sbandierata come scientifica del trikle-down (sgocciolamento), abbiamo deciso di ridurre drasticamente la progressività delle imposte; siamo noi che abbiamo tollerato un livello di corruzione e un livello di lavoro nero patologico; siamo noi che non abbiamo voluto tagliare sprechi e privilegi.
Se oggi siamo sepolti dagli interessi (60-70 miliardi ogni anno; ben 2.094 miliardi in 25 anni) è perché noi ci siamo permessi negli anni ’70 e ’80 di squilibrare i conti.
E così oggi paghiamo il conto: mentre altri Paesi possono investire ingenti risorse nella ricostruzione, noi abbiamo le catene ai piedi.
Governare, lo so, è estremamente difficile.
Il serpente – la tentazione di elargire risorse in deficit (chiedendo prestiti al mercato) con lo scopo di accrescere il consenso elettorale – è sempre in agguato.
Ma alla fine il conto si paga: non stiamo ancora, tra l’altro, pagando circa 6 miliardi di euro ogni anno per i baby-pensionati (anche se la legge è stata abolita nel 1992)?
E così, a fronte di 6 miliardi a favore di alcune centinaia di migliaia di persone, ora possiamo permetterci di investire nella sanità (per incrementare le terapie intensive e per rafforzare i presidi territoriali) solo 3 miliardi e 250 milioni: non siamo in presenza di una sproporzione scandalosa?
Se abbiamo mandato allo sbaraglio i nostri operatori sanitari (che abbiamo la spudoratezza di chiamare “eroi”), se abbiamo dovuto decidere un lockdown più duro rispetto a quelli dei nostri principali concorrenti commerciali con conseguenze disastrose in campo economico, non è il prezzo che, direttamente o indirettamente, stiamo pagando per la nostra… miopia politica?

 

 

Mai più!

Non vorrei apparire, in un’ora così tragica, come un irresponsabile iconoclasta.
Non accuso nessuno. Stigmatizzo solo una certa cultura che, come un virus, ci ha infettato un po’ tutti: la cultura della miopia.
Del resto, come ricostruire dopo le macerie senza riconoscere i nostri errori o anche solo le nostre lacune?
Perché non appendiamo ai balconi striscioni con la scritta, a caratteri cubitali, MAI PIÙ?
MAI PIÙ anziani lasciati morire, dopo averli esposti, anche solo per negligenza, al virus (per poi dire, senza alcun pudore, che sono morti perché già compromessi da altre patologie).
MAI PIÙ medici e infermieri mandati a combattere in prima linea senza un’adeguata protezione.
MAI PIÙ tagli alla sanità che hanno messo in seria discussione il diritto costituzionale alla salute.
MAI PIÙ un virus chi ci attacchi senza che noi abbiamo predisposto le misure necessarie di difesa.
MAI PIÙ la folle presunzione (una vera e propria hybris) di essere i padroni del pianeta.
MAI PIÙ un lockdown al limite della violazione dei diritti costituzionali e così rigido da lasciare per anni ferite profonde.
MAI PIÙ.

 

 

Un sogno d’incubo

Un debito pubblico/Pil che vola al 200%. Uno spread che schizza a 1.175 punti base. Un Paese allo sbando, in balia dei mercati finanziari, del tutto spogliato della sua sovranità.
Tesori nazionali diventati preda di avvoltoi stranieri e interni. Milioni e milioni di disoccupati. Un ceto medio “proletarizzato”. File interminabili davanti alle mense dei poveri.
E… tanta rabbia che viene urlata in tutte le piazze, fisiche e virtuali.
Un sogno d’incubo? Uno scenario apocalittico da fantapolitica?
Forse no. Tutto, nel nostro Paese, reso ancora più fragile e disarmato dal coronavirus, potrà accadere quando sarà esaurito l’helicopter money, quando il bazooka della Bce non sarà più operante.
È già accaduto alla Grecia di avere uno spread a 2.600 punti base.
È accaduto anche all’Italia di toccare negli anni ’70 quota… 1.175.
Il Covid ha fatto tante (troppe) vittime, ma la bomba sociale che ci ha regalato ucciderà ancora di più.

 

 

I have a dream

Di fronte allo tsunami che ci ha travolto, ci siamo scoperti non più… italiani, americani, cinesi…, ma “uomini”. Uomini impotenti. Tutti accomunati dallo stesso destino.
D’incanto è crollato il nostro delirio di onnipotenza.
E d’incanto ci siamo sentiti fratelli, ugualmente fragili, tutti in pericolo, tutti aggrappati a una scialuppa in un mare in tempesta.
È osare troppo pensare di ripartire, con le macerie ancora fumanti, con un nuovo paradigma?
Abbiamo costruito degli dei: il dio-mercato, il dio-profitto, la dea-nazione… e sul loro altare abbiamo sacrificato tutto, in primis il nostro essere dei “fini” e non dei “mezzi”. Ci siamo prostrati davanti alla dea-libertà e così abbiamo dato il via libera allo sfruttamento dell’uomo sull’uomo e all’avvelenamento del pianeta. Ci siamo messi in ginocchio al dio-progresso e oggi stiamo pagando un prezzo altissimo.
Non è il momento di rovesciare gli dei, tutti gli dei, anche il mantra “there is no alternative”?
Un peccato troppo grave sfidare gli dei immaginando un mondo non più (Mai più!) contrassegnato dal… “bellum omnium contra omnes” (o, meglio, dalla guerra degli squali contro gli ultimi della terra), ma dalla “cooperazione” e dalla “condivisione”?
Un peccato troppo grave immaginare una “globalizzazione della solidarietà”?
Un’utopia? Già, ma non è l’utopia il motore della storia? Non sono i nostri governi democratici (e… socialdemocratici) ad avere consacrato i nuovi dei? E non siamo noi che abbiamo il potere di selezionare la classe dei governanti?

 

 

Globalizzare la solidarietà

Cooperare, condividere, globalizzare la solidarietà: slogan utopistici di anime belle, di intellettuali da salotto (o da social) incapaci di vedere che il mondo, fuori, è teatro di predatori e di prede? No: l’utopia, pur ancora in forma embrionale, ha già preso corpo.
Non sono il frutto di una “cooperazione internazionale”, dopo decenni di una competizione esasperata sotto le bandiere di due superpotenze, le missioni spaziali?
Non sono “condivisi” su una piattaforma internazionale i dati relativi al Covid, dati che verranno elaborati nelle loro interconnessioni da un super-calcolatore del Cern?
Non sono “open source” non pochi software, anche molto sofisticati?
Non abbiamo assistito noi italiani, nella fase più drammatica della gestione del coronavirus, a una vera e propria “globalizzazione della solidarietà” con medici e infermieri che sono arrivati dalle aree più diverse del mondo?
È il momento di favorire al massimo lo sviluppo di questi germogli.
Nel 1948, con un colpo d’ala, i governanti della Terra si sono riuniti per sancire solennemente “il diritto alla vita” per tutti gli “esseri umani”. Non è l’ora di un altro colpo d’ala per garantire davvero tale diritto?
Proprio a tutti. Anche ai miliardi di persone che vivono in Paesi con strutture sanitarie immensamente più inadeguate delle nostre, anche ai milioni (centinaia di milioni) di individui che sono più esposti al rischio a causa della denutrizione, anche a chi vive in un continente come l’Africa dove il virus potrebbe mietere fino a 3 milioni di vittime.
Abbiamo costruito una civiltà del “superfluo” e abbiamo dimenticato ciò che è “essenziale”.
Un’impresa titanica la sfida alle dee dell’Olimpo che sono le multinazionali del farmaco?
È vero, ma fino a quando dovremo tollerare che la politica continui ad essere forte con i deboli e debole con i forti?

 

 

Win-win

La cooperazione è morta?
Una cosa è certa: il vento dell'”America first” – il vento della rottura, della politica muscolare, dei nazionalismi ostentati e dei nazionalismi praticati – ha fatto il giro del mondo.
Uno scenario allarmante? Forse no: non è l’egoismo una possente leva per la cooperazione?
Non è l’egoismo – il nostro bisogno di aiuto in questa situazione di estrema debolezza – a spingere l’Italia verso un’accelerazione del processo di solidarietà europea?
Non è interesse della Germania (il timore di pesanti ripercussioni negative a livello commerciale in caso di naufragio del nostro Paese) solidarizzare con l’Italia?
Non è interesse/egoismo dell’Europa (prevenire una nuova e più massiccia, a causa della pandemia, ondata immigratoria) solidarizzare con i Paesi più poveri dell’Africa?
Che cosa ha spinto la Cina in questi giorni a destinare due miliardi di dollari – via Oms – all’Africa se non per tutelare i propri corposi investimenti all’insegna del “do ut des”?
Non è, infine, interesse di ciascun Paese (prevenire un rimbalzo dall’estero di nuovi focolai ed evitare ingenti danni sul fronte del turismo) che il vaccino, una volta scoperto, non lasci indietro nessuno?
Win-win.
Non vi è altro che possa muovere i governi e i popoli a cooperare!

 

 

Profondamente interconnessi

Non è vero che la Germania-forte abbia interesse a solidarizzare con l’Italia-debole?
Una domanda che ci obbliga a sondare di più le “ragioni egoistiche” della “solidarietà”.
Supponiamo (ricorriamo all’esperimento mentale di Galileo) che il nostro Paese, schiacciato dal debito pubblico (reso ancora più pesante a causa delle misure necessarie per contrastare gli effetti devastanti del Covid) e messo in ginocchio dai mercati finanziari, fallisca: sarebbe la fine dell’euro e, di conseguenza, di quel poco di “casa comune” che gli europei hanno costruito in decenni. Ora, non sarebbe la Germania a pagare a caro prezzo tale eventualità? È, infatti, il Paese che ha guadagnato di più dall’euro: non è l’euro che ha consentito alla Germania, al riparo dalle svalutazioni competitive dei principali concorrenti europei, di diventare una super-potenza mondiale? non è l’euro che le ha permesso di beneficiare largamente della crisi dei cosiddetti debiti sovrani, potendosi finanziare a tasso zero?
Mai e poi mai la Germania lascerà l’Italia precipitare nel baratro, tanto più che le due economie sono profondamente interconnesse.
Ma un fatto è sotto gli occhi di tutti: la Germania, che sta investendo la bellezza di 1000 miliardi di euro per rafforzare il suo sistema economico, uscirà più forte di prima dalla crisi della pandemia.

 

 

Peggio di prima

Nulla sarà come prima: non è lo slogan ipocritamente sbandierato da tutti (o quasi)?
Ora, non abbiamo la netta sensazione che tutto sarà come prima, anzi peggio di prima? Non si stanno acutizzando le tensioni tra gli Usa (in piena campagna elettorale) e la Cina con pesanti ripercussioni sull’intero pianeta a danno sempre dei più poveri? Non stiamo assistendo a un crescendo di disuguaglianze? Pensiamo solo all’Europa: grazie a un lockdown più blando e ad aiuti di Stato più consistenti, la Germania incrementerà ancora di più il suo surplus commerciale e ruberà di conseguenza altri milioni di posti di lavoro ai già martoriati Paesi del sud; l’Olanda continua a recitare la trita e ritrita litania di accuse alle “cicale” europee e nello stesso tempo a difendere a spada tratta il suo paradiso fiscale.
E che sta accadendo in Italia? Le solite risse in parlamento in un momento in cui la coesione sociale e politica dovrebbe essere massima; i soliti benefici distribuiti a pioggia (vedi i 6 miliardi di azzeramento dell’Irap), anche ad aziende che il Covid ha avvantaggiato; il solito ricorso al tradizionale canale di finanziamento quando l’Europa ci mette a disposizione un fondo senza alcuna condizionalità a un costo prossimo allo zero.
I giganti del digitale, infine, non stanno aumentando ancora di più la loro egemonia, sempre grazie al Covid, senza pagare tra l’altro le imposte dovute agli Stati in cui operano?
Tutto sta andando come prima e peggio di prima.

 

 

Un’occasione irripetibile

Motivi di fiducia, comunque, non mancano: l’Europa, paralizzata da tempo dalle sue lacerazioni interne, non sta ridando segni di vita? La sospensione del Patto di stabilità, la cassa integrazione europea, un Fondo per spese sanitarie dirette e indirette senza condizionalità, il Recovery Plan finalizzato a una ricostruzione all’insegna della “green economy” e del digitale e il bazooka della Bce non sono misure (pur timide ancora) che vanno nella giusta direzione?
Abbiamo a disposizione dall’Europa 36 miliardi di euro destinati a spese sanitarie (dirette e indirette): non è un delitto rifiutarli?
Riflettiamo.
Non siamo di fronte a un’occasione irripetibile, quanto meno, per avvicinarci al modello tedesco in termini di posti di terapia intensiva e di rafforzamento della medicina territoriale?
Non è un’opportunità unica per riqualificare le nostre RSA, rendendole davvero a misura di “persone” e non di “numeri”, accrescerne l’offerta in modo da soddisfare le esigenze di chi non può permettersi di pagare rette proibitive presso residenze private e, nello stesso tempo, intensificare il servizio a domicilio?
Il tutto a un tasso d’interesse prossimo allo zero?
Non conseguiremmo, inoltre, l’obiettivo di rimettere in moto importanti segmenti dell’economia?
Non tocca a noi cittadini elettori attivarci perché tale delitto non si consumi?

 

 

Un colpo d’ala per l’Europa

Proviamo ad andare oltre l’orizzonte strettamente nazionale.
Il diritto alla salute non potrebbe diventare l’obiettivo prioritario dell’Unione europea?
Non sarebbe un bel colpo d’ala per l’Europa se diventasse il Polo più avanzato al mondo in termini di ricerca scientifico-medica e di sensibilità nei confronti di tutti coloro che soffrono nel corpo e nell’anima?
L’Europa ha bisogno di ritrovare valori alti: ora, non sarebbe nobilissima tale missione, una missione che, tra l’altro, potrebbe ricompattare Paesi fortemente tentati dalla lusinga del nazionalismo (ostentato o praticato)?
Non abbiamo tutti, nella presente triste stagione, riscoperto il valore sommo del diritto alla vita e alla salute?
Perché, allora, non destinare massicci investimenti alla ricerca, in primo luogo alla ricerca “pubblica” (sganciata dalla logica del profitto)?
Perché non coordinare i laboratori nazionali in modo da ottimizzare le risorse sulla base di precise priorità? Una cabina di regia europea, ad esempio, non farebbe risparmiare nella ricerca dei vaccini ingenti risorse che oggi vengono disperse in mille rivoli?
Perché non offrire nuove prospettive ai tanti ricercatori europei che sono stati costretti a volare oltre oceano?
Perché non stroncare ogni speculazione calmierando i prezzi di tutto quanto attiene al diritto alla salute, inclusi i prodotti farmaceutici, in modo da non penalizzare nessun cittadino?
Non è l’occasione, questa, per prendere severe misure anti-trust contro le multinazionali del farmaco che occupano oggi posizioni oligopolistiche, se non monopolistiche, e di porre fine al loro strapotere di ricatto nei confronti degli Stati nazionali, nonché di far valere i diritti della collettività, considerato che le aziende farmaceutiche incorporano nei loro farmaci “conoscenze” acquisite dalla ricerca di base largamente finanziata con i soldi dei cittadini e quindi fanno profitti con risorse di tutti i contribuenti?
Non è, infine, più che opportuno che sia la stessa Europa a predisporre un piano per gestire le nuove probabili pandemie?

 

 

Un interesse vitale per l’Europa

Non è il caso di volare ancora più alto? Non assisteremmo a un altro colpo d’ala, se l’Europa, oltre che a perseguire l’obiettivo di qualificarsi come il Polo di eccellenza della salute nel mondo, supportasse su tale fronte il continente a noi più “prossimo” e per noi di “interesse vitale” che è l’Africa?
L’Africa, nonostante le sue stridenti contraddizioni, i suoi Stati deboli con i forti (multinazionali, trafficanti di uomini/droga/armi, i suoi fanatici che uccidono in nome di Dio…), non è più l’“hopeless continent”, ma si sta apprestando a diventare, grazie alle sue immense ricchezze, ai suoi ritmi di crescita, alla sua emergente classe imprenditoriale femminile…, il nuovo “centro del mondo”.
Un’Africa “rising” ma… con i piedi di argilla, flagellata com’è dalle mille malattie (dal colera alla malaria, dall’epatite E a Ebola, dall’Aids alla tubercolosi), e con strutture sanitarie fragilissime.
La Cina esporta là infrastrutture quali autostrade, ferrovie, ponti. Perché noi non potremmo esportare le infrastrutture della salute che sono la pre-condizione di ogni sviluppo economico?
Non è, del resto, lo stesso Dragone rosso che ha colto il problema destinando, proprio nei giorni scorsi, due miliardi di dollari via Oms?
L’Europa non si salverà da sola, neppure con i 750 miliardi del Recovery Plan. Non bastano i soldi: ci vogliono idee, ci vogliono statisti lungimiranti.
Come potrebbe reggere la “fortezza” europea all’urto di una nuova e più massiccia ondata migratoria determinata dagli effetti nefasti del Covid e magari di una nuova pandemia di ritorno di importazione africana?

 

 

Le insidie dello smart working

Il Covid uccide persone e posti di lavoro, ma può diventare anche una potente opportunità. Pensiamo allo smart working: ciò che avrebbe richiesto anni, il coronavirus l’ha realizzato in due mesi e solo in Italia gli smart workers sono passati da due a otto milioni!
Un vero e proprio miracolo: minori costi sia per il lavoratore che per l’azienda, maggiore benessere per tutti e per lo stesso pianeta determinato dalla minore circolazione di autoveicoli (minore inquinamento, minori patologie connesse). Un benessere anche in termini di tempo guadagnato: pensiamo alle ore sprecate per raggiungere il luogo di lavoro e per tornare a casa.
Gli smart workers, inoltre, avendo la possibilità di gestire il tempo di lavoro con più flessibilità, sono in grado di conciliare meglio lavoro e famiglia. Non assisteremmo, infine, a una generale riduzione dei prezzi causata dal minore consumo di carburante e dalla minore domanda di case in affitto nelle grandi città?
Certo, i rischi non mancano.
Il rischio che l’orario di lavoro si dilati all’infinito a seconda delle richieste dell’azienda.
Il rischio che il lavoratore, isolato, senza più relazioni con i colleghi, perda ogni potere contrattuale col datore di lavoro.
Il rischio, in ultima analisi, che lo smart si trasformi in maggiore (anche se più sofisticato) sfruttamento.
Da qui la necessità di una regolamentazione (non basta quella già in vigore in Italia dal 2017): il maggiore benessere collettivo e dello stesso pianeta non dovrà essere perseguito violando i “diritti” dei lavoratori.

 

 

Un’opportunità per l’altra metà del cielo

Lo smart working, nella misura in cui consente una maggiore possibilità di coniugare lavoro e famiglia, potrebbe diventare una straordinaria opportunità di rientro nel mondo del lavoro per tante – troppe – donne che, obtorto collo, hanno dovuto rinunciare a una realizzazione professionale.
Non dimentichiamo che siamo in presenza, in Italia, di un tasso scandalosamente basso di occupazione femminile (il 49,5% contro una media europea del 62% e contro punte di oltre 70%), una situazione che di sicuro si è aggravata con la chiusura per mesi delle scuole di ogni livello.
Potremo davvero pensare di uscire dalla gravissima crisi in cui precipiteremo una volta saranno esauriti i fondi europei, senza l’apporto creativo e intelligente di donne ora forzatamente inoccupate?
E potremo davvero immaginare una ricostruzione “dal volto nuovo” senza le qualità (sensibilità, capacità organizzativa e comunicativa…) di milioni e milioni di donne?
Perché, allora, non raccogliere la raccomandazione dell’europarlamento a predisporre percorsi formativi con l’obiettivo specifico di accrescere le competenze digitali delle donne?
Si tratterebbe, naturalmente non della soluzione, ma di una soluzione. Una soluzione che non dovrà essere disgiunta dall’offerta di servizi adeguati alle famiglie come asili nido davvero accessibili a tutti (leggo con piacere che la task force “Donne per un nuovo Rinascimento” prevede la creazione in cinque anni di ben 100.000 posti in più negli asili nido).
Un punto dovrà essere chiaro: lo smart working non potrà essere una modalità di lavoro tesa a perpetuare una discriminazione odiosa, quella che carica solo sulle spalle delle donne la cura della famiglia, ma semplicemente uno strumento in più a disposizione di tutti, maschi e femmine.

 

 

Il mantra della digital economy

“Digitalizzare” è diventato il mantra, l’obiettivo sbandierato come la soluzione di tanti problemi.
Un mantra che spinge da anni sociologi (tra cui il nostro Domenico De Masi) a sognare una sorta di Eden in cui la “manodopera” verrà rimpiazzata dalla “mentadopera”, in cui l’alienazione operaia denunciata da Marx sparirà non grazie alla lotta di classe, ma all’evoluzione della tecnologia.
Ora, stiamo davvero imboccando la strada – stimolata anche, con tanta generosità di finanziamenti, dal Recovery Plan – che ci condurrà al Paradiso perduto in cui non ci saranno più fatica e sudore sulla fronte?
Lo scenario che ci viene prospettato è di sicuro allettante.
Ci alletta immaginare gli operai trasformarsi in colletti bianchi che, senza sporcarsi le mani, controllano su monitor i robot che fanno il lavoro che prima incombeva su di loro.
Qualcosa, tuttavia, non convince.
Che ne sarà di quegli operai che non riusciranno, magari perché over 50, a riconvertirsi? Saranno degradati ad addetti alle pulizie o saranno addirittura licenziati?
Che ne sarà dei riconvertiti che lavoreranno da casa? Diventeranno dei lavoratori “atipici”, con partita Iva e condannati a un lavoro instabile e sottopagato?
E che ne sarà dei lavoratori digitali che rimarranno in azienda? Verranno controllati ancora più di prima, questa volta non da un capo reparto, ma da algoritmi, vale a dire “l’equivalente della vecchia catena di montaggio, ma molto più difficile da interrompere” (Birgid Mahnkopf)?

 

 

I nuovi schiavi

Il Recovery Plan si propone, tra l’altro, di investire nella coesione sociale. Ora, non stiamo assistendo, con la diffusione dello smart working e con la graduale ma progressiva trasformazione degli operai in lavoratori digitali, a una sorta di nuova classe “privilegiata”, quindi a nuove disuguaglianze sociali?
Un “privilegio” che abbiamo toccato con mano durante il lockdown: da un lato i lavoratori da remoto che potevano permettersi di stare al riparo dal contagio, dall’altro, quanti erano esposti tutto il giorno (anche sui mezzi pubblici) al virus.
Una disuguaglianza non imputabile all’ingiustizia sociale?
Lo sarebbe se tutti avessero in concreto le medesime opportunità di formazione, il che è in contrasto con la realtà.
Un “privilegio” di cui prima o poi usufruiranno tutti?
È vero, la tendenza è questa: sempre più professioni saranno digitalizzate o, quantomeno, avranno un supporto digitale (dalle “libere” professioni ai lavoratori delle stalle, dai medici ai bancari…).
Una tendenza che va tutt’altro che demonizzata, tanto più che certi lavori gravosi (le stesse pulizie) verranno sempre più delegati a robot.
Qualcosa, comunque, non quadra: noi europei tendiamo a caricare i lavori più faticosi e più ripetitivi (quelli non ancora robotizzati o non robotizzabili) sulle spalle di nuovi paria.
Non stiamo forse diventando in qualche misura come i “liberi” della… democratica Atene che potevano permettersi di godere della bellezza della vita sulla pelle degli schiavi e degli stranieri?
Non stiamo, in altre parole, diventando (rubo un’espressione del sociologo Luca Ricolfi) una “società signorile di massa” che si fonda su “nuovi schiavi”?

 

 

Un potenziale didattico da non perdere

Il Covid si è abbattuto su tutti, ma non ha colpito tutti nello stesso modo. La scuola, di sicuro, è tra gli ambiti che hanno sofferto di più.
La pandemia, è vero, ha aperto una nuova frontiera, quella della didattica a distanza, una modalità che, pur con i suoi ritardi (a causa dell’impreparazione degli insegnanti), con i suoi limiti (almeno nella prima fase ha tagliato fuori le famiglie più ai margini della società in quanto sprovviste di dispositivi di accesso), col suo procedere quasi mai a pieno regime, ha dato prova che la scuola c’era e c’era nelle case di tutti (o quasi) gli studenti, piccoli e grandi.
È fin troppo facile oggi sparare contro la didattica a distanza, ma che cosa sarebbe accaduto se, in un’ora così tragica della nostra storia, la scuola avesse abbandonato gli studenti a se stessi?
Una modalità che sarà del tutto cancellata quando si tornerà alla normalità? Io mi auguro di no. Mi auguro, anzi, che verranno valorizzate al massimo le sue potenzialità.
La didattica a distanza consente di realizzare l’aspirazione di tutti gli insegnanti che si trovano quotidianamente a gestire classi di 20-25 ragazzi: una scuola “personalizzata” sia in termini di relazioni umane che di esercitazioni su misura.
Se studiata con intelligenza, poi, potrebbe permettere di sviluppare ancora di più la “relazione”.
Io ho un sogno: una scuola “rovesciata” in cui (mi riferisco in particolare agli studenti più grandicelli) i ragazzi frequentano le “lezioni” (online) a casa e fanno i “compiti” a scuola.
La scuola oggi dedica troppo tempo a “trasmettere” informazioni e troppo poco a favorire il più possibile, tramite esercitazioni individuali mirate, l’espressione dei talenti di ciascuno. Ecco allora la scuola rovesciata: gli studenti apprendono gli “strumenti di base” di ogni disciplina a casa (ci sono sul mercato dei corsi online, straordinariamente efficaci sotto il profilo didattico, che prevedono, passo dopo passo, dei momenti di “verifica”, condizione necessaria per la prosecuzione delle lezioni) e a scuola “applicano” tali strumenti.
Libera (o parzialmente libera) dall’onere di trasmettere informazioni, la scuola non diventerebbe un vero e proprio luogo di lavoro, di ricerca, di creatività (individuale e collettiva) e di lettura critica del nostro tempo?

 

 

Il “grido della terra” e il “grido dei poveri”

“Digital” e “green” economy: è questa la nuova frontiera lanciata dal Recovery Plan.
Già, ma quale digital economy? Un’economia che accresce ancora di più le disuguaglianze sociali, che lascia indietro gli scarti (chi non è in grado di riconvertirsi), che distrugge più posti di lavoro di quanti ne crea, che precarizza il lavoro, che sacrifica la dignità dell’uomo sull’altare degli algoritmi, che dirotta risorse ingenti dalla periferia dell’impero verso Silicon Valley?
La digital economy è un treno che non possiamo perdere, ma la direzione non dovremmo deciderla noi?
E questo vale anche per la green economy. Un’economia che ha un approccio esclusivamente “ambientale” o anche “sociale”, che si preoccupa solo della cura della natura o anche di “restituire la dignità agli esclusi”?
Tocca a noi europei decidere: vogliamo una rivoluzione solo “verde” o una rivoluzione “globale”, quella che è efficacemente espressa dall’enciclica Laudato si’ di papa Francesco, una rivoluzione che ascolti sia il “grido della terra” che il “grido dei poveri”?

 

 

Fare gli europei

Investire nel futuro dell’Europa: non è questa, in ultima analisi, la mission del Recovery Plan? Ora, come realizzare tale scopo senza investire nella “formazione” della “next generation Eu”?
L’Europa, pur tra mille difficoltà e sospetti reciproci, sta dimostrando (così pare) di “esistere”. Non è allora il momento di “fare gli europei”? Non è l’ora, di fronte alle macerie lasciate dal Covid, di recuperare e rivitalizzare quello “spirito europeo” che ha animato, all’indomani del secondo conflitto mondiale, i nostri padri costituenti?
Un’impresa impossibile?
Di sicuro difficilissima. Il sogno europeo si è infranto. L’Europa dei popoli si è trasformata nell’immaginario di una moltitudine di cittadini, nell’Europa delle banche. Gli statisti sono stati rimpiazzati da arcigni ragionieri tanto ligi alle loro regole contabili da calpestare la sovranità di parlamenti nazionali (il caso Grecia docet).
Sarà difficilissimo ricucire gli strappi, ma la pandemia non ci ha insegnato ancora una volta e in un modo drammatico che nessuno si salverà da solo?
Non abbiamo tremendamente bisogno, proprio in questa ora, di “europei” che sappiano andare oltre gli stereotipi di “formiche” e di “cicale”, oltre la ricerca ossessiva del consenso immediato?
A mancare è la “coscienza europea”, la consapevolezza di appartenere a un destino comune.
Ma come formarla?
Molto si è fatto, senza dubbio, per abbattere le barriere linguistiche, per promuovere esperienze di scambio tra studenti europei: i giovani hanno imparato a viaggiare in Europa, a muoversi come “europei”, a toccare con mano i benefici di essere “cittadini europei”.
Tutto questo, tuttavia, non ha impedito l’esplosione di forze centrifughe che hanno portato l’Europa sulla soglia della rottura, non ha impedito errori grandi come macigni che hanno tolto ogni credibilità alle istituzioni europee.
Che fare allora? Non ci resta che seminare. Sarebbe di grande utilità prevedere per tutti i ragazzi che frequentano gli ultimi anni delle scuole medie superiori l’obbligo di soggiornare per un periodo congruo in un altro Paese dell’Unione europea.
Come sarebbe di grande utilità compiere un ulteriore passo in avanti, investendo nella “formazione di una nuova classe politica europea” che sappia operare il miracolo di trarre dagli “egoismi nazionali” (la potente leva della cooperazione) il massimo possibile dei vantaggi per tutti.
Una classe politica che sappia, in altre parole, dimostrare con i fatti che la “cooperazione” (la logica dell’et-et, del win-win) paga. E paga per tutti.

 

 

 

montaggio della foto di copertina a cura di Anna Borghi

PIERO CARELLI

08 Giu 2020 in

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