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GUIDO ANTONIOLI

Due anti-utopisti

A ben pensarci, tra Niccolò Machiavelli e Giacomo Leopardi – autori raramente fra loro accostati – esistono molti elementi in comune. Rintracciarli e meditarli potrebbe essere utile per comprendere e giudicare meglio questi due grandi. La prima caratteristica comune, quella più evidente ma anche meno foriera di interessanti conseguenze, è che entrambi gli autori sono stati ampiamente fraintesi sia dai loro contemporanei che, per lungo tempo, dalla stessa critica letteraria e storiografica successiva. Il primo è stato giudicato come un cinico pensatore per il quale “il fine giustifica i mezzi” (frase mai scritta né pensata dal Segretario fiorentino), il secondo come un grande poeta portatore di un tragico vissuto e quindi di altrettanto tragiche, e quindi non troppo umanamente universalizzanti, idee.

 

 

Questi fraintendimenti, o errate interpretazioni, la dicono lunga sullo scarso livello di capacità di analisi che possiedono assai spesso critici ideologicamente schierati, nonché l’inattendibile, perché ondivaga, sicumera con la quale epoche diverse hanno diversamente interpretato uno stesso autore e le sue stesse, peraltro identiche, parole (lo stesso discorso si potrebbe ancor più fare circa l’interpretazione dei singoli fatti storici – ma non è questo l’intendimento del nostro scritto). Si potrebbero rilevare, a corollario, il destino di solitudine, esistenziale e culturale, che ha caratterizzato entrambi gli autori: testimonianza forse di come l’umanità (ceto intellettuale compreso) preferisca, a tutela della propria (falsa e meschina) coscienza di sé, quasi sempre i mediocri, ai grandi.

 

 

Il cosiddetto cinismo di Machiavelli era invece una visione disincantata della realtà storico-politica degli staterelli italiani del ‘500, così come la filosofia esistenziale di Leopardi altro non è che una visione disincantata e realistica della condizione umana quando priva della fede in qualche religione o in qualche ideologia.

 

 

I suggerimenti spregiudicati del pensatore fiorentino ad un principe che potesse unificare la penisola italica, sottomettendo gli altri principi e scacciando gli stranieri dal suolo italiano, furono dettati da un sano realismo storico. Chi altri, e con quali strategie, avrebbe potuto ottenere tali risultati? Se la forza militare necessaria per fare una guerra è la condizione essenziale per la vittoria, perché mai un principe non dovrebbe sempre pensare (e addestrarsi) ad essa? E se in politica estera occorre essere sia volpe che leone, anche a costo di ritenere carta straccia trattati sottoscritti ma non più utili al perseguimento dei propri scopi, perché mai un principe dovrebbe rinunciarvi? E se per avere l’appoggio e il consenso sia dei “grandi” che del popolo un principe – per mantenere il proprio potere – deve conoscere l’arte della dissimulazione e della intelligente e spregiudicata elaborazione di una buona immagine pubblica, perché dovrebbe farne a meno? Forse perché sarebbe immorale, secondo l’ideologia cristiana, sempre pronta a separare i vizi dalle virtù, secondo la propria (anch’essa peraltro fluttuante storicamente) ideologia sociale?

 

 

Una delle più importanti lezioni che ci ha trasmesso Niccolò Machiavelli è proprio quella che la politica, ovvero l’arte del governo, deve essere ben distinta dalla morale comune, per non essere inficiata alla radice da presupposti fuorvianti, che oggi chiameremmo buonisti. Il che non ha impedito al “cinico” Machiavelli, non si dimentichi, di parteggiare per il “populo”, “che desidera non essere comandato né oppresso da’ grandi”, anziché per quest’ultimi, che “desiderano comandare e opprimere el populo”, e di preferire una forma repubblicana di governo a quella monarchica.

 

 

La presunta disperazione esistenziale di Leopardi, di cui sarebbero intrise le sue opere, disperazione intesa dai più come derivante da una vita avara di affetti amorosi e di riconoscenza pubblica, non è in realtà né disperata né nichilista. E’ semplicemente ed umanamente lucida, coraggiosa e soprattutto realistica. A fronte delle mancate, perché irraggiungibili, risposte alle domande sul senso della vita (vedasi ad esempio il Canto notturno di un pastore errante dell’Asia), consapevole di come tutte le forme viventi siano nella ineluttabile condizione dell’esserci-per-la-morte (anticipando di un secolo e mezzo la filosofia esistenzialista), rifiutandosi stoicamente di credere sia alla resurrezione della carne, quale elemento chiave delle religioni, che gli appaiono essere quindi solo delle “superbe fole”, che alla propaganda ingannatrice del progresso positivista (le irrise “magnifiche sorti e progressive”), un uomo, interessato a fare i conti sinceramente e coraggiosamente con la propria condizione esistenziale e attorniato dal “deserto della vita”, non potrebbe che arrivare alle medesime condizioni del poeta recanatese. In realtà ci vuole coraggio per accettare e fare proprie fino in fondo le idee sia di Machiavelli che di Leopardi. E’ più facile, e comodo, fraintenderle per meglio addomesticarle.

 

 

Potrebbe essere utile ricordare inoltre – ecco un secondo tratto comune – come entrambi i Nostri abbiano avuto come ineludibile riferimento culturale gli antichi.
Machiavelli quando, dopo essersi “ingaglioffito” il pomeriggio insieme ad “un beccaio, un mugnaio, dua fornaciai” giocando “a cricca, a tricche-trach”, la sera smetteva la veste quotidiana, “piena di fango e di loto” e, indossando “panni reali e curiali”, entrava “nelle antique corti delli antiqui uomini, dove, da loro ricevuto amorevolmente, mi pasco di quel cibo che solum è mio, e che io nacqui per lui”, per cercare di capire, grazie alla storiografia antica, romana in primis, quali forze occulte causassero e influenzassero gli accadimenti storici, per trarne utili indicazioni circa la strategica gestione del potere.
Leopardi quando, sin da giovanissimo, imparò a tradurre poeti e scrittori greci e latini, i filosofi e gli eruditi antichi, studiati attraverso le lenti esatte della filologia. Certo, poi lesse anche Petrarca, Alfieri, Foscolo, Goethe. Ma nel Dialogo di Tristano e di un amico, giustamente ritenuto da molti come la summa del pensiero poetico e filosofo del Leopardi adulto, egli ricorda come la propria “filosofia dolorosa”, “così rifiutata da tutti, come si rifiutano le cose nuove e non più sentite”, fosse in realtà “tanto nuova, quanto Salomone e quanto Omero”.

 

 

La già ricordata posizione di Leopardi circa i dogmi religiosi e la fede nel progresso porta a riflettere su un terzo elemento che unirebbe, secondo la nostra analisi, questi due grandi, che è poi con tutta probabilità la caratteristica più interessante e ricca di conseguenze per comprendere la loro lezione. Intendiamo riferirci al loro radicale rifiuto delle utopie, ovvero delle ideologie fuori dalla realtà effettuale.

 

 

E’ solo uscendo dalle pastoie della trattatistica medioevale ed umanistica, così intrisa di moralismo, che Machiavelli poté fondare la politica come scienza, entità culturale a sé stante, ed a suggerire strategie di governo razionali e storicamente efficaci.
E’ solo stando alla larga dalle due ideologie dominanti ai suoi tempi, il neo-spiritualismo ed il positivismo, appunto, che l’illuminista Leopardi riuscì a giungere ad una lucida e realistica visione della condizione dell’esistenza, sia dell’uomo che dell’intero universo.
Il Segretario fiorentino lo fece scegliendo di andare “drieto alla verità effettuale della cosa, che alla immaginazione di essa “, negando valore alle fantasticherie consolatorie applicate alla storia e alla società.
Leopardi, come detto, prendendo nettamente le distanze sia dalla consolatoria visione religiosa della vita che dalle infondate promesse del positivismo progressista.

 

 

Ma cosa non andava, secondo loro, nelle posizioni utopistiche? Per Machiavelli non tanto le premesse teoriche, di per sé facilmente confutabili (però anche dialetticamente difendibili dai loro sostenitori), quanto le concrete conseguenze storiche. Per Leopardi, invece, soprattutto le premesse esistenziali, ovvero i motivi che spingevano alcuni uomini a immaginare società irreali, non aventi luogo. Come si può notare, in questo caso i due partirono da due punti di osservazione diversi: potremmo dire il primo dagli effetti, il secondo dalle cause delle visioni utopiche. Ma entrambi – ed è questo ciò che a nostro parere più conta – arrivarono a giudicare nel medesimo modo gli uomini, proprio partendo dall’analisi delle utopie da essi generate.

 

 

Scrive Machiavelli: “E molti si sono immaginati repubbliche e principati che non si sono mai visti né conosciuti essere in vero”; con l’inevitabile conseguenza (“perché egli è tanto discosto da come si vive a come si dovrebbe vivere”) che “colui che lascia quello che si fa per quello che si doverebbe fare, impara più tosto la ruina che la perservazione sua”. La Storia ha dato ragione più volte al Segretario fiorentino, per esempio nel caso del giacobinismo, del comunismo, del razzismo, con le tragiche loro conseguenze storiche.
Leopardi considerava illusorie, ingannevoli e moralmente squalificanti sia l’interpretazione religiosa della vita e dell’universo (paradossalmente quando, per puro gioco intellettuale, arrivò ad ipotizzare l’esistenza di una divinità, la pensò malvagia), sia gli accenti fintamente rassicuranti e scioccamente ottimistici dei positivisti.

 

 

Ma quale era per entrambi, ante o post, la nocività delle utopie?
Perché accanirsi contro di esse?

 

 

Per Machiavelli le utopie erano fallaci, e avrebbero avuto conseguenze sociali catastrofiche, poiché partivano da un presupposto sbagliato, ovvero da una visione distorta della società, quella che faceva credere (e che fa ancora credere troppa gente sedicente buona, ignorante più che ingenua) nella bontà naturale degli uomini (la stessa errata visione che secoli dopo ancora teorizzeranno stolidamente Rosseau e Carlo Marx). Un governante sbaglia ad immaginarsi un mondo perfetto, perché “un uomo che voglia fare in tutte le parte professione di buono, conviene ruini infra tanti che non sono buoni”. Qui sta il punto: il genere umano non è virtuoso. Meglio, non è solo virtuoso. L’innata tendenza verso il male (ciò che il Cristianesimo ha definito come “il peccato originale”) pulsa costantemente ed incessantemente nell’animo individuale (e probabilmente anche in quello delle masse). Da qui il conflitto morale che caratterizza da sempre la razza umana, conflitto che vede il più delle volte, sia nelle relazioni individuali che nei rapporti tra gli stessi Stati, vincere il Male. Dante, quando nel sesto canto dell’Inferno chiede a Ciacco che cosa abbia causato la rovina della società fiorentina, prototipo di ogni società umana, gli fa rispondere: “superbia, invidia e avarizia sono le tre faville c’hanno i cuori accesi”. Un principe dunque, per Machiavelli, deve “volendosi mantenere, imparare a potere essere non buono, e usarlo e non l’usare secondo la necessità”.
Uno Stato non si regge sull’adesione entusiastica e virtuosa dei propri cittadini; non esistono più (semmai siano esistite in micro-comunità) società davvero volte e strutturate al bene comune. Non per caso si sono dovute inventare le leggi, con le relative punizioni per coloro che le infrangono. Più che le virtù, pare proprio che siano purtroppo i vizi a guidare i comportamenti, individuali e sociali, degli uomini.
Le utopie – ed è proprio questo che le rende così radicalmente errate nonché socialmente devastanti -tendono a rimuovere questo dato di fatto, questa “realtà effettuale”, e così facendo introducono nella Storia delle distorsioni dalle conseguenze nefaste.

 

A Leopardi non interessa tanto dare un giudizio sulle masse (di cui diffida però apertamente, visto che, come scrive nel Tristano, “le quali che cosa sieno per fare senza individui, essendo composte di invidui, desidero e spero che me lo spieghino gl’intendenti d’individui e di masse, che oggi illuminano il mondo”), quanto giudicare il genere umano. E sappiamo bene quanto duro e radicale sia il suo giudizio.
Per lui il mondo è pieno “d’ignoranti impostori da un lato, e d’ignoranti presuntuosi dall’altro”; “gli uomini sono codardi, deboli, d’animo ignobile e angusto”; credono e crederanno a “tante scempiataggini” e non si convinceranno mai “né di non saper nulla, né di non essere nulla, né di non aver nulla a sperare”. Riempiono le carte “di fetido orgoglio”, sempre pronti “ad accomodarsi con qualunque condizione a qualunque sorte più iniqua e più barbara, e quando sieno privati d’ogni cosa desiderabile, vivere di credenze false, così gagliarde e ferme, come se fossero le più vere o le più fondate del mondo”.

 

 

A cosa si riferisse il poeta con il termine “credenze false” è facilmente rilevabile: l’utopia cristiana (e religiosa in genere) e quella positivista. Idee false, frutto entrambe di quel “forsennato orgoglio” e di quella infermità mentale che, a giudizio di Leopardi, caratterizzano i “mortali”. Idee utopiche dunque che, come è altrettanto facile dedurre, non possono certo portare ad un miglioramento della società, che infatti “star suole in piede qual star può quel ch’ha in error la sede”. Se l’Illuminismo razionalista aveva gettato le basi per una evoluzione accettabile della comunità umana, la sua esasperazione positivistica, di stampo fideistico esattamente come lo spiritualismo, l’aveva fatta regredire nettamente. Ed sono proprio la vigliaccheria, la superbia e la falsa coscienza di sé dei “mortali”, incapaci di costruire comunità razionalmente ben strutturate e virtuose, a far scaturire nella Storia, filosofie e politiche utopistiche.

 

 

Vi è un quarto elemento, comune sia a Machiavelli che a Leopardi, che parrebbe a prima vista contraddire il loro radicale pessimismo sociale, storico ed esistenziale. Ed è la speranza in un riscatto umano. Va peraltro sottolineato come, se è la loro ragione a dettare le critiche più severe e anti-utopistiche alla società degli uomini, è la loro passione invincibile verso la vita, quindi un vero e proprio sentimento – che potremmo anche chiamare emozione, quindi un elemento non razionale – a portarli verso posizioni meno negative, non certo verso le utopie, quanto nei confronti degli uomini in genere.

 

 

Si tratta, in Machiavelli, della più che nota “Esortazione” finale de Il Principe, quella in cui il Segretario fiorentino si augurava che un uomo di governo, ben inteso con alcune importanti accortezze (in primis le “armi proprie”), potesse presto guidare la riscossa italica contro gli stranieri; un augurio veicolato dagli speranzosi versi di Petrarca: “Virtù contro a furore/ prenderà l’arme; e fia el combatter corto:/ché l’antico valore/ nelli italici cor non è ancor morto”. Nell’ultimo capitolo del suo capolavoro, il Segretario mette dunque nettamente da parte il suo metodo d’analisi, rigorosamente razionale e, per molti versi, già scientificamente esperimentale, per abbandonarsi alla speranza. Una posizione venata da utopia, la sua? Crediamo di no, e per due buoni motivi. Innanzitutto, visto che la sua esortazione-previsione si è poi storicamente realizzata senza gravi danni sociali, essa non può essere considerata un’utopia. Inoltre, ed è questo il dato più sostanziale, la sua speranza finale rientrava a pieno titolo nell’obiettivo del libro da lui concepito e scritto, non dimentichiamoci, sulla base della concreta esperienza storica come Segretario della Repubblica fiorentina nonché come appassionato studioso di storia antica: l’obiettivo di dotare un principe italiano degli strumenti necessari a riunire la Penisola sotto un solo governo e scacciarvi gli stranieri. L’Esortazione finale altro dunque non è che il corollario inevitabile, conclusivo, già implicito nella stessa Dedica iniziale a Lorenzo de’ Medici. Peraltro una esortazione intrisa del sentimento della speranza.

 

 

Ed è sempre un sentimento quello che spinge Leopardi, nella Ginestra, ad approdare ad una visione meno cupa del genere umano, o quantomeno ad ipotizzare l’esistenza, nella massa falsa e pavida, di alcuni individui eccezionali, caratterizzati da una “nobil natura”, ovvero da un animo eroico, individui che tutti gli altri dovrebbero utilmente imitare. Costoro sono ben consapevoli della disgraziata condizione in cui versa il genere umano, non credono né alle “superbe fole” religiose né alle sirene delle “magnifiche sorti e progressive”; parlano con lingua franca (certamente non politicamente corretta!) “nulla al ver detraendo”, dunque sincera. Non si credono destinatari di un destino privilegiato; al contrario sanno sopportare la privazione di una qualunque speranza. Eppure non hanno rinunciato a credere che i loro simili possano in qualche modo essere positivamente recuperati: è lo spirito fraterno che li anima e che li spinge a sperare in una nuova società, in una comunità che sia solidale, dove tutti danno e nel contempo chiedono aiuto agli altri. L’importante è ritenersi tutti fratelli, uniti nella lotta impari contro la Natura matrigna, evitando nel contempo il male peggiore: accusare il prossimo delle sofferenze fisiche e spirituali che la vita costringe a (mal) sopportare.

 

 

Viene da chiedersi se questa riflessione, propria dell’ultimo Leopardi, chiamata dai critici “solidaristica”, non possa configurarsi paradossalmente come una vera e propria utopia, oltretutto dal sentore clamorosamente cristiano (“Ama il prossimo tuo come te stesso”). Il pensiero finale del poeta recanatese, giunto ormai alla vigilia della propria morte, può dunque essere inteso come una possibile uscita dalla sua visione dell’umanità?
Noi non lo crediamo. Un conto è credere nell’esistenza esemplare di individui straordinari, un altro è sperare che tale eroismo sia fatto proprio dalle masse e possa condizionare positivamente l’evolversi sociale. Certo, la stessa esistenza di una “nobil natura” può far supporre che un’alternativa alla ignavia e alla meschinità umana sia possibile. Ma si tratta pur sempre di una posizione elitaria, per non dire solitaria. Quella stessa amara solitudine in cui fu costretto a vivere l’intera esistenza Giacomo Leopardi, rifiutato da tutti i suoi simili, di cui non sapeva se ridere o piangere, proprio per le sue idee e le sue convinzioni sui “mortali” e sul loro ruolo nell’universo. Un rifiuto che accettò peraltro con disperato eroismo, con sovrumana virtù, sorretto com’era dal pensiero di essere nel giusto. Perché era lui stesso l’esempio vivente di quella “nobil natura” in cui ardentemente si ritrovò forse, nonostante tutto, a sperare, senza peraltro costruirvi sopra l’idea di una società utopica futura. Una “nobil natura” di cui non vi è traccia nelle società a lui posteriori, né tantomeno nella nostra. Purtroppo.

GUIDO ANTONIOLI

27 Apr 2020 in

Chiuso

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