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RITA REMAGNINO

Il bambino è servito

Secondo il sentire comune i racconti favolosi sono passatempi infantili creati per evocare le ambientazioni e i personaggi zuccherosi della cinematografia disneyana, quando invece si tratta di narrazioni sopravvissute agli stessi popoli che le hanno generate. Per millenni queste narrazioni hanno viaggiato di bocca in bocca, la cultura cristiana le ha censurate ed epurate, quella illuminista le ha trasformate in racconti per l’infanzia e oggi la mentalità globalista vorrebbe manipolarle a suo uso e consumo.

 

 

Sembra uno scherzo, ma nell’Europa del «tutto è permesso» le fiabe dei Fratelli Grimm e di Charles Perrault sono tollerate a stento. La tentazione di «intervenire» su di esse, a dire la verità, non è nuova. Già alla fine della Seconda guerra mondiale il pedagogista francese Brauner propose di bandire le fiabe dai libri di scuola per intrinseci motivi di sadismo. I pedagogisti progressisti del tempo si sbizzarrirono su certi aspetti feroci e lividi della letteratura per l’infanzia, l’ala tedesca addirittura si spinse a formulare perverse connessioni fra la stufa a legna della strega di “Hänsel e Gretel” e i forni crematori …

 

 

Negli ultimi decenni sono piovute sui racconti della tradizione popolare molte accuse di sessismo, avallate da una pletora di sedicenti esperti che ha valutato negativamente gran parte delle fiabe per bambini circolante in Europa. Troppi, a loro parere, gli stereotipi legati a personaggi femminili «non indipendenti». Le mamme sono quasi sempre in cucina, le nonne fanno la calza e le bambine giocano con le bambole, mentre il maschio continua ad essere la figura famigliare di riferimento.

 

La mannaia dello «svecchiamento» è calata persino su “Pinocchio”, che una teutonica scrittrice sessantottina tentò di «ripulire» (orrore!) della perfidia di cui Collodi aveva intriso il testo. L’impresa non prendeva neppure in considerazione l’ipotesi che il bambino, salvo casi eccezionali, non è uno stupido. Non si spaventa se il burattino resta impiccato a un albero perché in cuor suo sa che poi dall’albero lo tireranno giù. Il bambino ha fiducia nella giustizia e nel bene, capisce intimamente il valore inestimabile di quella «prova iniziatica» (replica delle nove notti di Odino appeso al frassino Yggdrasill) e avverte la sensazione, anche se non ne ha esperienza, che crudeltà e paura siano componenti essenziali dell’umano, categoria alla quale anche lui/lei appartiene.

 

 

Sempre meglio, comunque, le fiabe classiche che «facevano paura» anziché quelle moderne che «fanno cronaca», una forma di comunicazione sicuramente più controllabile e malleabile. Oggi si lascia credere che “Barbablù” sia un femminicida perché considerarlo un uomo qualunque equivale ad ammettere che certi istinti esistono nel cuore di tutti gli esseri umani. Ma che male c’è? In fondo la vita è un’altalena di chiaroscuri, di luci e di ombre, per cui vedere l’inconscio come un concentrato di bassezze e perversioni significa riconoscere implicitamente l’esistenza di un superconscio dal quale sgorgano, come rivi d’acqua limpida e fresca, le azioni più nobili, le aspirazioni generose, gli impulsi benevoli e altruistici.

 

 

Di fronte a una personificazione favolosa del Male è salutare che il bambino provi paura. L’assenza di paura è il sintomo di un grave disagio, impedisce di capire i propri limiti, porta al delirio di onnipotenza e all’inevitabile caduta, proprio come succede a tanti protagonisti delle fiabe. Conforta inoltre sapere che altri bambini si spaventano davanti alla stessa cosa, fa sentire in «buona compagnia», aiuta a capire di non essere i soli ad avere fantasie ansiose, colleriche, distruttive.

 

 

Per quale motivo si tenta dunque d’intervenire su narrazioni fantastiche che da secoli svolgono il loro onesto lavoro? Il problema è l’immaginazione, probabilmente, che va scongiurata perché sfugge pericolosamente a qualsiasi controllo di tipo impositivo. Un popolo che racconta storie fantastiche è un popolo che usa il pensiero analogico, ragiona con la sua testa e tira le sue conclusioni. Ecco perché la Francia prende di mira “Cappuccetto Rosso” e “Cenerentola” (il lupo che insidia la bambina è chiaramente un pedofilo e la matrigna è violenta) mentre la Spagna si scaglia contro “Hänsel e Gretel” e “La bella Addormentata nel Bosco”, colpevoli di insinuare inaccettabili stereotipi in menti vergini ancora tutte da forgiare.

 

 

Improvvisamente siamo diventati buoni e saggi? Non proprio, visto che è vietato parlare del Lupo Cattivo ma si può navigare liberamente in internet dove i pedofili, quelli veri, sono davvero a caccia di bambini. Diciamo che siamo mediamente più ignoranti e non conosciamo il nostro passato. Altrimenti sapremmo che nella tradizione nordica di matrice indoeuropea la sorte degli uomini e degli dèi era nelle mani delle Norne, tre sorelle che filavano la rete del Destino e scrivevano il libro del Fato, le quali ad ogni nascita si radunavano intorno al letto del moribondo per recidere il filo della vita e accanto alla culla del neonato per decretarne il futuro, esattamente come le tre fate della “Bella Addormentata nel Bosco”.

 

 

Solo un’umanità senza passato può puntare il dito contro le favole della cultura popolare per tollerare invece il museo di Berlino (ce n’è anche uno in Usa) dedicato a “Barbie”, in cui la casetta tutta rosa a grandezza umana ha i connotati di un bordello thailandese mentre il povero Ken, messo lì dentro come un soprammobile, interpreta la parte del maschio deficiente. Vogliamo tirare su una nuova generazione partendo da questi presupposti?

 

 

L’antico non piace ai nuovi tutori dell’ordine mondiale. Ma anche il «moderno intelligente», come ad esempio “Il Piccolo Principe”, viene guardato con sospetto. A un mercante di pillole destinate a dissetare, il principino chiede perché venda quella roba. La risposta è in perfetto stile mercantilista: si tratta di un’oculata gestione del tempo, non dovendo più bere chi cammina può risparmiare fino cinquantatré minuti la settimana. Ribatte l’arguto principino: “Io, se avessi cinquantatré minuti da spendere, camminerei adagio adagio verso una fontana.“ Si potrebbe obiettare che in questo modo il piccolo sovrano ostenta tutto il suo antimodernismo poiché la modernità obbliga a correre a perdifiato, tanto veloci da passare accanto alla fontana senza neppure riconoscerla. Che bisogno c’è della fontana, in fondo, quando già ci sono le pillole?

 

 

Pesanti manomissioni stanno riguardando ultimamente anche i cartoni animati. E’ arrivata nelle sale la nuova versione del “Re Leone” (1994) in sostituzione della vecchia considerata «fascista» perché introduceva il bambino in una società dove i deboli imparavano a venerare i più forti. Seguendo la stessa logica l’esile Ariel della “Sirenetta” (1988) è diventata afroamericana. Con la scusa del remake in live-action (viva la tecnologia!) ci attendono prossimamente sullo schermo i rimaneggiamenti «politicamente corretti» di: “Lilli e il vagabondo” (che rappresenta stereotipi culturali come i cuochi italiani), “La spada nella roccia” (che inneggia alla predestinazione mentre siamo tutti uguali), “Peter Pan” (meglio non sopravvalutare la fantasia), “Il gobbo di Notre Dame” (giù le mani dagli handicappati), e chissà cos’altro.

 

 

Anche “Dumbo”, il dolce elefantino volante creato nel 1941 dalla Disney, è da «svecchiare». Sembra che il dimesso gruppo di corvi canterini che donano al piccoletto azzurro la «piuma magica» che gli darà il coraggio di alzarsi in volo, sia stato interpretato come una parodia anteguerra dei neri d’America. A scanso di equivoci e di denunce già oggi sul portale Disney+, all’inizio di ogni classico, si può leggere: “I cartoni che stai per vedere sono prodotti del loro tempo. Possono rappresentare alcuni dei pregiudizi etnici e razziali che erano all’ordine del giorno nella società americana. Queste rappresentazioni erano allora sbagliate e lo sono oggi. Sebbene questi cartoni non rappresentino la società odierna, vengono presentati come erano stati originariamente creati, perché fare diversamente sarebbe lo stesso che pretendere che questi pregiudizi non siano mai esistiti.

 

 

Inutile dire che non c’è magia, né poesia, nelle odierne pellicole rivedute e corrette. Ma, probabilmente, la cosa non riguarda chi le ha ritoccate. Strano che nessuno abbia ancora pensato di mettere le mani su uno dei capolavori nella storia dei cartoon: “Brisby e il segreto di NIMH” (1982), rifiutato a suo tempo dalla Disney, e oggi si capisce il perché. Brisby, la protagonista, è una topolina di campagna rimasta vedova con quattro figli e con uno sfratto imminente poiché il campo dove la famigliola vive sta per essere arato. Recandosi a chiedere consiglio dal temutissimo Grande Gufo, scopre che il suo Jonathan fu un eroe che pagò con la vita la liberazione di molti altri topi e ratti intrappolati nelle gabbie dell’Istituto Nazionale per la Salute Mentale (National Institute of Mental Health: da qui, l’acronimo di NIMH). Gli esperimenti avevano reso topi e ratti intelligenti, potevano leggere, scrivere e creare l’elettricità, invecchiare più tardi, ma dovevano stare in gabbia e non erano più felici. Ogni riferimento ad eventi attuali è puramente casuale.

 

 

Non si poteva lasciare i vecchi cartoon come stavano, anziché stravolgerli con la scusa di trasferirli in versione digitale? Tra l’altro la maestria di caratteristi, coloristi e disegnatori del passato non è neppure lontanamente paragonabile all’ordinarietà di oggi. Una volta dietro la scrivania c’erano gli artisti, adesso ci sono gli informatici. E i padroni di costoro sono i Signori della Silicon Valley che hanno un’idea di società e di mondo tutta particolare. Non è un caso che La celeberrima serie “i Simpson” stia facendo ultimamente la campagna per le presidenziali ed abbia preso posizione contro Trump. Beati i tempi ingenui in cui si poteva ridere liberamente davanti a Bugs Bunny e Daffy Duck, oppure seguire le peripezie di Willy il Coyote e Beep Beep.

 

 

Si dice che le cose di una volta oggi non divertono più i bambini. Ma sarà vero? Siamo sicuri che l’obiettivo della semplificazione narrativa non sia invece l’omologazione? Si è creato un tipo di comunicazione diretto, preciso, immediato, sfrondato da rimandi e particolari per scongiurare i voli della fantasia che stimolano il pensiero. La cronaca nuda e cruda, quasi un articolo di giornale, sulla quale ogni interpretazione diventa superflua basta e avanza. Ed ecco arrivare nelle sale francesi il cartone animato “Dilili a Parigi”, storia di una piccola meticcia melanesiana che approda nella capitale a fine Ottocento dopo essersi imbarcata clandestinamente sulla nave che riporta in Francia dalla Nuova Caledonia l’insegnante anarchica Louise Michel, che diventerà la sua ispiratrice. A Parigi la ragazzina stringe amicizia con Orel, un facchino affascinante e gentile che la introduce nel mondo artistico e culturale della Belle Époque. Insieme a lui e ad alcuni dei più famosi personaggi dell’epoca Dilili s’impegnerà nella ricerca dei cosiddetti Cattivi Maestri, una specie di mafia nigeriana in salsa ottocentesca che terrorizza la città svaligiando le gioiellerie e rapendo giovani fanciulle per avviarle alla prostituzione.

 

 

Non poteva essere da meno la Spagna, che dopo il successo della novella “La principessa differente”, sta pensando di trasferire il personaggio sul grande schermo. La storia di questa giovanissima eroina politicamente corretta inizia con un incipit piuttosto eloquente: “Non molto tempo fa c’era una principessa che si chiamava Alba Aurora, delicata ed amabile, ma anche molto agile e sportiva e a cui piaceva, tutti i sabati, scalare montagne o fare camping in spiaggia”. Inutile dire che Alba Aurora se ne impippa del Principe Azzurro e, difatti, al momento opportuno si libererà da sola sia del mago malvagio che dell’orco mostruoso.

 

 

Sempre al passo con i tempi la Disney ha sfornato di recente il film “Onward – Oltre la magia”, dove la protagonista, l’agente Specter, si dichiara lesbica e non fa mistero di avere una fidanzata. Solo la Russia sembra non avere gradito le «novità per bambini» che rientrano nell’ambito dell’indottrinamento gender, e difatti in fase di doppiaggio ha eleminato ogni riferimento alla «fidanzata» parlando di un generico «partner».

 

 

Viene da chiedersi fino a che punto chi tesse queste trame sia consapevole della violenza esercitata dal mono-discorso di matrice liberal sulle menti ingenui dei bambini. A piccole dosi si stanno somministrando lezioni subdole, a tratti leziose, camuffate dall’aspetto bonario di una «bella democrazia» raccontata come una fiaba. L’intento è chiaro: preparare le generazioni future alla logica del cosmopolitismo consumista. Ma se l’esperimento non riesce, poi, cosa succede?

 

 

Dalle narrazioni popolari si passerà ai classici che in pochi leggono ancora, questo è vero, ma che continuano ad essere rappresentati a teatro e al cinema. Già nella serie epica di Netflix i ruoli di Achille, Patroclo e Zeus sono stati assegnati ad attori di colore. Par condicio. Ma se da un lato si continua a snaturare le narrazioni popolari e tradizionali, dall’altro appare chiaro che l’umanità contemporanea non sa più raccontare. O, comunque, non ne ha il tempo, essendo totalmente assorbita dai cicli produttivi. Il che significa che un reale sostituto della narrazione fantastica, al momento, non c’è. Che bisogno c’era di gettare via il vecchio con tanta fretta?

 

 

A meno che l’obiettivo non sia proprio l’eliminazione del precedente. Bisogna convincere grandi e piccini che c’è un solo modo di vedere le cose, tutto il resto è falsità (fake), infondatezza, secondi fini, menzogna. E nessuno si azzardi a dire che il «pensiero a senso unico» limita creatività e fantasia, autonomia di pensiero e di valutazione, perché non è vero. Al giorno d’oggi chiunque è libero di dipingere o raccontare ciò che vuole. Certo, in teoria è così, ma senza una solida base culturale frutto di un patrimonio immenso di esperienze e tradizioni pregresse cosa si dipinge e cosa si racconta? Espropriato dei suoi modelli ideali, come può un bambino ispirarsi a figure esterne, oltre a quelle di mamma e papà, a maggior ragione in assenza di un vero clan famigliare?

 

 

Inevitabilmente queste storie senza passato saranno espressioni di desideri personali, ansie e paure individuali, elaborazioni soggettive di un presente in grado di offrire solo spunti omologati e rigorosamente privi di sbocchi. Roba che non interessa a nessuno, insomma. Come i «giochini» elettronici usa e getta, come le serie televisive di maggiore successo che si dimenticano l’anno successivo per fare posto a qualcos’altro. Tutti prodotti già cotti e mangiati, in futuro anche digeriti.

RITA REMAGNINO

18 Mag 2020 in

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