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ADRIANO TANGO

Il negazionismo nella storia delle epidemie

Il termine negazionismo generalmente si riferisce a quel “movimento di opinione” che si suole datare al ’76 statunitense, quando Arthur Butz pubblicò un testo intitolato “La menzogna del Ventesimo secolo”, in cui poneva in dubbio l’Olocausto, ma ormai l’assimilazione alla negazione eziologica e patogenetica (causa e meccanismo) di un male, o altri fatti scientificamente e storicamente assodati, si dà per scontata.
Comunque il negazionismo in materia sanitaria nasce ben prima della Shoah.
Di fronte alla ripetitività storica di queste manifestazioni di massa, fenomeno che è centro di questo scritto, e al dubbio conseguente sul tipo di risposta che è meglio dare, è d’obbligo la comprensione delle radici antropologiche e psicologiche di tali comportamenti.
Difficile stabilire di quanto risalire indietro nella storia.
Potremmo rifarci alla pestilenza con cui si apre l’Iliade (adesso la definiremmo una zoonosi castrense, ma all’epoca infondo quasi pandemica, per incontro di genti coinvolte nel conflitto occidente contro oriente).
Al tempo tuttavia le responsabilità erano delegate agli dei, che erano dispensatori di benefici come attori di distruzione, e magari qui e lì anche di dubbie gravidanze…
Se leggiamo bene fra gli archetipi troviamo elementi comuni di interpretazione del dramma destinati a susseguirsi nei tempi: se è Apollo (la forza letale) a scagliare i funesti dardi è una lite fra uomini ad armargli la mano, e c’è anche rappresentato un intermediario dell’ignoto che lo attiva: il sacerdote Crise (l’untore, lo scienziato “deviato”).
Ugualmente in Edipo Re la peste è una punizione divina legata una colpa umana.
La sapevano lunga i Greci! Le infezioni uccidono, ma l’operato umano le innesca.
Manca il negazionista, ma, di fronte a una divinità, chi si sarebbe permesso!
Per il primo esempio chiaro dobbiamo rifarci al Manzoni: Don Ferrante fa discorsi pseudoscientifici per negare la peste, e d’obbligo si indica l’uso della parola “pestilenze”, quasi sorelle minori. Nella vicenda, storica, il ruolo degli untori, anche medici che l’avrebbero diffusa per proprio tornaconto, assume un ruolo centrale, meccanismo psicologico che ci riporta fino a tempi attuali.
Il macroevento di paragone più stringente con l’attuale Covid dovrebbe essere la spagnola del 1918, malattia più simile per agente infettivo (virale) e interessamento prevalentemente respiratorio. Ma non a caso si chiamò spagnola: l’equivoco sulla provenienza fu alimentato dal fatto che se ne parlava a bocca aperta soprattutto nel paese estraneo al conflitto, mentre il resto del mondo, sconvolto dalle cannonate, sottostimava fin che poteva, negava. Tuttavia sapeva, ma la memoria storica collettiva non ha conservato molto di questo flagello, che in molti paesi ha causato più morti del fuoco nemico.
Le cause dell’obliterazione nella memoria collettiva sono molteplici, in primis la concorrenza degli eventi bellici, ma anche il fatto che non c’erano elementi di conoscenza, o eroi medici che fungessero da icona.
E tuttavia un precedente negazionistico è documentato ed eclatante: a San Francisco duemila persone parteciparono a un raduno della “Lega contro le mascherine”.
Un termine di paragone più efficace, per ricchezza di dati, emerge con un male pandemico meglio studiato e ricordato: il colera dell’ottocento, un’indubbia pandemia.
Il tumultuoso avvento del male fu frutto della prima globalizzazione.
Il terreno era fertile per il contagio: dallo sviluppo tecnologico, agrario e industriale, derivò un nuovo benessere, sia pur mal ripartito, e ciò causò un notevole incremento demografico, caratterizzato da spiccata urbanizzazione. Ma le condizioni igieniche non migliorarono di pari passo con l’affollamento.
Non solo l’acqua di superficie era inquinata, ma anche quella di falda era soggetta a infiltrazioni; i condotti spesso erano a cielo aperto, o, se interrati, si crepavano e venivano contaminati da liquami. Il defluire di acque di scolo era quasi la regola, fin nei centri urbani. Così le città ottocentesche, che ora idealizziamo con immagini romantiche, si presentavano invase da rifiuti di ogni genere. Le case dei poveri erano sovraffollate, prive spesso di latrine, e ospitavano spesso animali, e morti sepolti non lontano dai viventi.
Intanto, grazie alla forza vapore, iniziavano a velocizzarsi gli spostamenti, e fu determinante al proposito l’apertura del canale di Suez nel 1869.
Ci dà un’idea della rapida connessione il romanzo di Jules Verne “Il giro del mondo in ottanta giorni”: venti giorni per il viaggio da Londra a Bombay, rotta inversa al colera, ma le generali condizioni di igiene non erano certo quelle riservate al facoltoso protagonista.
Il primo focolaio letale si presentò a Calcutta nel 1817, per diffondersi poi verso la Cina, e quindi a ovest in Persia. Nel luglio del 1830 il colera era a Cracovia, nell’ottobre a Mosca e poi Vienna, nelle cui campagne si contarono duecentocinquantamila morti. A metà di giugno dell’anno successivo le maggiori città russe erano contagiate. Il popolo, terrorizzato, insorse: furono distrutti numerosi ospedali e iniziava l’abituale caccia all’untore, spesso medici; il sangue di innocenti macchiava le strade.
Due anni dopo una nave salpata dal Baltico fece approdare il colera sulla costa orientale dell’Inghilterra, dove invase i centri maggiori e di lì a poco l’intera Francia. Poi passò agevolmente in Belgio, nei Paesi Bassi e nella Prussia renana, quindi al nuovo mondo, dal Canada agli Stati Uniti all’America latina. Nel 1834 furono soldati inglesi infetti a portare il male nell’intera penisola iberica, da cui risalì lungo le Fiandre, Germania del nord e da Amburgo conquistò la penisola scandinava. Quindi da Nizza, l’anno successivo, il colera discese in Italia, dove fece strage in più ondate, devastando verso fine secolo Napoli.
Poi il vibrione è mutato, ancor più aggressivo nella variante El-Tor (Sinai) e quindi col ceppo 0139 (Bengala), ma la situazione ebbe il potere di indurre alla prima conferenza sanitaria internazionale (Parigi 1851), antesignana dell’OMS.
Per la prima volta fu una diffusione senza vie di fughe, perché il male non procedeva più per contagio di prossimità, con la velocità di progressione del fronte stimata in due – cinque chilometri al giorno per la peste, ma a focolai multipli.
La caccia agli agenti microbici, in generale, era intanto già iniziata con figure storiche della ricerca quali Pacini a Pistoia, Spallanzani a Pavia, Bassi a Lodi, e poi Pasteur, Jenner, Pollander, Koch, che avevano messo il punto fermo sulla genesi batterica delle infezioni, determinando anche la fine della teoria della procreazione spontanea dalle putrescenze, mentre Lister metteva in relazione la buona guarigione delle ferite con l’asepsi.
In questo scenario si mossero in Germania, scontrandosi ripetutamente, due figure chiave della storia della Medicina: Robert Koch e Max Joseph Pettenkofer, emblematiche di quanto ancora vediamo in campo sulle affermazioni scientifiche e negazionismo.
Già nel 1822 il governo egiziano aveva chiesto aiuto a Francia e Germania, dove operavano le scuole di Louis Pasteur e poi dell’emergente Robert Koch.
Partirono così per primi dalla Francia i collaboratori di Pasteur, ma la spedizione fallì, con perdite umane, e rientrò. Fu quindi la volta di un tenace “uomo nuovo”: Koch.
Robert Heinrich Hermann Koch nacque nel 1843 in un centro minerario nei pressi di Hannover, terzo di tredici figli di un ingegnere; un’agiata famiglia borghese quindi, salvo le ristrettezze economiche da prolificità, eccessiva anche per l’epoca.
Il piccolo Robert già a quattro anni aveva imparato a leggere e scrivere, e il seguito degli studi, fino a una rapida affermazione universitaria nel campo della medicina, rispettò le aspettative. Dopo un primo incarico all’Ospedale di Amburgo, il matrimonio e la nascita di una figlia, si trasferì in Polonia, per stabilirsi infine come ufficiale medico a Wollstein, dove comprò una casa sufficientemente grande da servire anche come ambulatorio e laboratorio di ricerca, e lì iniziò a bruciare il suo sacro fuoco: la caccia ai microrganismi. Lavorava da solo, nei ritagli di tempo, usava mezzi artigianali e poveri, inventati estemporaneamente: prelevava i campioni infetti da animali morti di cui constatava lo stato come pubblico ufficiale, si faceva i brodi di coltura con scarti di macelleria; innovazione, l’umor acqueo di occhi di bue, che per primo solidificò “in piastra” con l’agar. Messa a punto la microfotografia, applicando la fotocamera al microscopio, poté documentare i risultati: antrace e tubercolosi i primi microorganismi isolati, poi in studi esteri malaria, malattia del sonno, peste suina.
Ma col successo iniziarono i guai, perché, come outsider, “un medico di paese”, gli toccò il peso solitario della rivalità con le figure accademiche dell’epoca, quali i più anziani e blasonati Virchow e Pasteur, e infine Pettenkhofer, “il negazionista”.
Il 24 agosto 1883 fu inviato dal Governo tedesco ad Alessandria d’Egitto, e poi a Calcutta, per far luce sul colera. Dall’India inviò aggiornamenti continui sull’andamento della ricerca, e Il 7 gennaio 1884 annunciò al mondo di aver isolato il vibrione.
La sua storia personale non fu certo all’altezza della sua gloria: a quarant’anni divorziò dalla prima moglie, destando scalpore, e presto sposò una modella diciassettenne. Vinse il Nobel nel 1905, ma la sua vita si concluse comunque in “sottotono”, dopo cinque anni di condizioni precarie a Baden-Baden.
Ciò mentre la Germania si impegnava in importanti opere di medicina pubblica, seguendo le idee che i neonati Istituti di Igiene diffondevano, artefice prioritario Pettenkofer.
Egli fu un accademico con tutte le investiture: a Monaco fu allievo di Liebig (poi ricordato come inventore del dado da brodo, un cui marchio di fabbrica ancora porta il suo nome).
Bavarese, studiò a Monaco, e fu scienziato ricco di inventiva, ma rimase sempre ostile alla batteriologia, in rapido progresso.
Membro della commissione per gli studi sul colera, nel 1875 fondò il suo Istituto di Igiene.
Fu sostenitore del principio di salubrità dell’ambiente, prioritario a suo avviso rispetto a quello di contagiosità dell’agente infettante.
Fu così che il 7.10.1892, compì il gesto clamoroso della beffa negazionista a Robert Koch: riuniti i suoi allievi fece esaminare il contenuto di un vasetto inviatogli da Koch, per cui lo ringraziava in una lettera falsamente complimentosa: “Il Dottor Pettenkofer offre al Dottor Professor Koch i propri rallegramenti e lo ringrazia per la fiala contenente i cosiddetti vibrioni del colera…”. Il dott. Kruif, che era presente, scrisse poi che in quel bicchiere erano presenti milioni di bacilli, sufficienti a infettare e sterminare potenzialmente un intero reggimento. Lo bevve, e non si ammalò.
È tutt’ora oggetto di congetture la totale refrattarietà al colera del luminare tedesco. Nonostante si siano invocate le ricorrenti dispepsie di Pettenkofer, che avrebbero neutralizzato per acidità gastrica l’agente infettante, non credo che sia questa la causa del mancato contagio: Pettenkofer prevenne infatti l’obiezione assumendo un sale basico.
Mi sembra invece più probabile questa spiegazione: Koch era a Berlino e Pettenkofer a Monaco, a 586 km di distanza, quindi con un tempo di percorrenza con i treni dell’epoca minimo di sei ore, oltre agli intoppi della logistica locale per spedizione e consegna, e il tutto in condizioni di conservazione non note, ma non certo ideali. Molto più probabile quindi che i vibrioni, per quanto osservati in stato di integrità citologica, fossero già devitalizzati. È del resto esperienza comune per chi abbia fatto esami sugli agenti infettanti in soggetti con emocolture positive, quanto sia frequente il mancato sviluppo da prelievi ascessuali (da cui il motto “per trovare i batteri cercali ovunque tranne che nel pus”).
Ciò che conta comunque è che Pettenkofer era sicuramente in buona fede.
Ora, a distanza di un secolo e mezzo, ci chiediamo quali fossero i motivi di concorrenzialità fra due scienziati e campi di studio con differenti applicazioni pratiche.
Pettenkofer nel 1894 si ritirò a vita privata, e nel 1901, nella propria abitazione di Monaco, si suicidò con una revolverata alla tempia.
Con lo scontro fra i due colossi della storia medica, Koch e Pettenkofer, si chiude una vecchia e si apre una nuova epoca, improntata proprio dalle loro visioni, tutte e due pionieristiche, e solo apparentemente incompatibili!
Se la rivalità di scuole fra seguaci di Koch e di Pasteur aveva infatti un senso, in quanto studiosi in concorrenza di microrganismi, Pettenkofer, essenzialmente un urbanista, che c’entrava nella disputa? Non ci resta che interrogarci ormai quanto la concorrenza del microscopio abbia influito sulle vicende sentimentali di Koch, e quanto l’ingiustificato vissuto di sconfitta abbia inciso sulla depressione che portò Pettenkofer al suicidio.
Se ora consideriamo gli specifici meriti nella prevenzione del contagio ci accorgiamo che l’opera dell’igienista ebbe impatto certo più immediato e concreto di quella del batteriologo: gli interventi medici erano infatti impotenti, disponendo di un armamentario limitato a sintomatici, quali l‘oppio e l’ossido di zinco, così che i pazienti, in preda a crampi, dissenteria irrefrenabile e vomito, morivano per disidratazione e squilibrio elettrolitico.
Morte atroce, tanto che dalla narrativa ci giungono notizie di eutanasie.
L’opera di Pettenkofer fu in definitiva coerente con quella di Ippocrate durante la peste di Atene, tutta ispirata alla teoria dei miasmi, inesatta, ma comunque promotrice di risanamenti, efficace cioè in senso igienistico. D’altra parte Pettenkofer, nel difendere la sua visione, non poteva più ignorare l’esistenza dei microrganismi, già scoperti e fotografati, e allora, nella sua ritrosia, si limitò a trattarli come degli opportunisti.
Ma non resse al colpo del passaggio epocale, prima negando, poi soccombendo.
Confronti infettivologico-epocali conclusivi
L’umanità dell’ottocento si è trovata catapultata in un modello di vita mai ipotizzato prima: il pianeta appariva improvvisamente tutto noto e colonizzato, tutto collegato con velocità di transito mai viste. Ma puntuale arriva la doccia fredda: un organismo primordiale, unicellulare, che, nelle mutate condizioni, genera un incubo.
E il paragone con la nostra iniziale incredulità, che presto diviene negazione, ma ancora una volta a tratti suffragata da rassicurazioni scientifiche, ci appare evidente.
Anche la nostra pandemia è infatti una malattia della globalizzazione, anzi, direi della sub totale occupazione dei territori emersi con una velocità negli spostamenti inaudita, dell’ordine delle centinaia, fin oltre mille, chilometri all’ora. Organismi ancor più primordiali del vibrione ne hanno tratto vantaggio. Dopo vari tentativi di invasione da parte di più agenti virali, in qualche modo bloccati, per primo HIV ha colonizzato il mondo intero, ma è stato quasi neutralizzato dai farmaci, più che da un’adeguata mutazione dei comportamenti (studi lo dimostrano).
Una sostanziale differenza con la calamità ottocentesca sta nei tempi: all’epoca antica la storia della malattia fu diluita in più ondate nel corso di un intero secolo, per la calamità in corso tutto è racchiuso nell’ambito di poco più di un anno solare, per ora.
Tuttavia prevale l’analogia. Mentre scrivo la vera arma di contrasto, il vaccino, sta appena iniziando a diffondersi, ma noi una cosa l’abbiamo già assodata: ora come allora i comportamenti umani sono in grado di render la vita dura all’agente patogeno, fino a estirparlo, almeno territorialmente. Nelle brecce di questo gioco delle parti, fra diffusori di opinioni e politici sanitari, si son fatti strada i negazionisti.
L’episodio dell’ingestione della coltura di vibrioni da parte di Pettenkofer è emblematico dell’intera vicenda, in quanto espressione della sua irriducibile resistenza all’avanzare della nuova scienza, e testimonianza di un sentito con cui ancora stiamo facendo i conti.
Ai più attempati è noto, per esserne stati testimoni dalle cronache, che il suo gesto è stato inconsapevolmente ripetuto durante l’ultima epidemia di colera europea, quella di Napoli del 1973, avanti alle telecamere della RAI, da un pescivendolo che, vedendo rovinate le sue attività commerciali, per negare il ruolo di vettori delle cozze, ne ingerì crude voracemente. Anche allora c’era un Koch operativo sul territorio: l’allora giovane e rampante Giulio Tarro, tuttora alla ribalta, che rapidamente isolò il vibrione.
Visto che la presenza del germe sarebbe stata circoscritta a cozze di importazione, senza colonizzazione della falda, l‘immunità dell’esasperato brav’uomo sarebbe spiegabile così.
La cronaca dei nostri giorni, in piena epidemia Covid ci ha, al pari, quasi assuefatti a gesti e affermazioni plateali anche da parte di esponenti del mondo della politica, e purtroppo anche di quella sanitaria. Si pensi alle dichiarazioni diffuse tramite i media dal subito rimosso commissario alla Sanità calabrese Zuccatelli sulla scarsa trasmissibilità del virus anche con un bacio molto intimo e prolungato (quindici minuti con la lingua in bocca).
Ma non si è certo fermato con la sua sospensione il dilagare della stupidità. Questo atteggiamento diviene infatti costume, bandiera nell’inosservanza, e dietro il rifiuto plateale della mascherina da parte di interi gruppi, ora come nel 1918, si celano sentimenti di rivalsa partitica, e strumentalizzazioni varie. E di strumentalizzazioni giornalistiche possiamo certo parlare a proposito di affermazioni incaute, affrettate, dettate da protagonismo che spesso porta a messinscene di rivalità di esponenti del mondo scientifico, da cui nasce la possibilità per tutti di trovare comunque un sostegno alle proprie vie di fuga nello sforzo paradossalmente prioritario del rifiuto della realtà dei fatti. Così le beghe fra virologi, quasi una passerella a caccia di odiens televisivo, han dato supporto a negazionisti e NoVax, come nell’ottocento la teoria dell’ubiquità del germe di Pasteur, quella del suo ruolo marginale rispetto alle cause ambientali dello stesso Pettenkofer, i precetti della medicina fisiologica (Janin, Sand) supportarono stili di vita imprudenti, gaudenti, come reazione alla minaccia.
Dei festeggiamenti di gruppo di eventi, sportivi o altro, ci informano i media, delle incoscienze ottocentesche ci danno testimonianza prevalente le ambientazioni letterarie.
E anche la caccia all’untore ci si è riproposta. I nuovi “untori” sono crocefissi mediaticamente per indimostrabili e fantasiose colpe: il Governo e gli scienziati cinesi, Bill Gates, che avendo avvertito del pericolo già nel 2015 e con interessi commerciali farmacologici inerenti, non può essere estraneo alla vicenda, Jacob Rothschild, (straricco e per giunta ebreo!) che avrebbe agito, oltre che per interesse economico, secondo un piano di riduzione programmata della popolazione mondiale. Il fatto che queste accuse non possano reggere a un minimo di critica razionale non scalfisce le convinzioni del mondo del complottismo, come non servivano le vibrate proteste di innocenza di quanti, notati nell’esecuzione di qualsiasi gesto sospetto, furono rapidamente segnati come untori, e barbaramente giustiziati.

 

Radici psicologiche del negazionismo
Quando si trovano in periodi di particolare stress e ansia di fronte a una minaccia, le persone sviluppano strategie per proteggere il loro senso di sicurezza. L’hanno spiegato, fra gli altri, Eve e Mark Whitmore, (Ohio) in un’intervista alla Cnn.
Negare l’esistenza della fonte minacciosa, del resto, è da sempre definita la politica dello struzzo (fallace interpretazione di comportamento fra l’altro: rigirano semplicemente le uova nel buco). Se la negazione totale a volte risulta troppo grossa allo stesso negazionista, allora si parla di Covid-19 come di un’altra influenza.
Su questa logica (illogica) si impiantano strategie e componenti sociali estranee: economiche, politiche, spiriti bellicosi a caccia di bandiere.
Come difenderci? Prudy Gourguechon, psichiatra e consulente di alta finanza, è del parere che la soppressione dell’ansia sia un meccanismo esistente in quanto utile a prendere decisioni, ma lo è per il breve termine, non per una presa di posizione radicale. Esplicitamente afferma: “… i meccanismi di difesa come la negazione sono irrazionali, ma protettivi. Evitare paura, senso di colpa, terrore e disagio fa sentire bene. Per superare in astuzia la negazione è fondamentale rispettarne il potere, apprezzarne il valore adattivo, fare appello all’emozione e non all’intelletto…”
Nel breve periodo, respingere i cattivi sentimenti negando qualcosa di spaventoso o difficile da comprendere, infatti, fa sentire meglio il negazionista. C’è un immediato rilascio di tensione. E sottolinea: “I funzionari della sanità pubblica e gli scienziati del clima hanno imparato questa dolorosa lezione. Il messaggio deve essere emotivo, personale, vivido, diretto… Inoltre bisogna entrare in empatia con la persona che sta lottando per affrontare una realtà scomoda. Invece di limitarsi a reclamare l’importanza e la sicurezza delle vaccinazioni, ad esempio, bisogna … applaudire il coraggio necessario al negazionista per tollerare l’ansia, l’incertezza, il senso di colpa…”
Penso sia fondamentale incentivare modelli comportamentali utili e non antitetici, traendo insegnamento da lezioni passate e presenti, abbandonare espressioni rapidamente diffusesi quali “perché nulla torni più come prima”. Trovo infatti importante non essere eccessivamente drastici, aprendo così la strada al fatalismo.
L’individuazione di “costanti storiche” deve assolutamente servire, in campo medico, sociologico, urbanistico e politico, all’indicazione di vettori di segno e direzioni chiari per la prevenzione di nuove, e forse ancor più gravi, calamità infettivologiche future, aggirando le difese ansiolitiche di singoli e gruppi e sostituendo lo scontro con una propositività nuova, indicare vie costruttive, progetti non vistosamente antitetici, che servano ai dissidenti sia a salvar la faccia, che a sciogliere nell’azione l’ansia che non riescono a sostenere.
E parlo di modifiche profonde del nostro mondo e delle nostre vite, innovazioni dimostratesi risolutive senza farmaci in passato, ancor più necessarie adesso, in un pianeta strutturalmente ammalato, in cui il progresso scientifico rischia di poter solo riuscire a inseguire, quando già è padrone del campo, il nemico di turno dell’Umanità.

ADRIANO TANGO

17 Gen 2021 in Storia

21 commenti

Commenti

  • Non un commento (nemmeno ne avrei l'”attrezzatura” adeguata), ma un ringraziamento per l’ottimo lavoro, esempio, tra l’altro di come si possa divulgare, senza banalizzare, pur utilizzando un linguaggio accessibile ai più (me compreso, ad esempio, ingmecc con le mani sporche di grasso!)..

  • Mi associo ai complimenti di Francesco. Un lavoro di ampio respiro: dall’approccio scientifico a quello storico, dal mito alla letteratura fino alla dimensione psicologica. Il tutto scritto con un linguaggio efficace e in modo intrigante. Io credo che per affrontare le perplessità di molti di fronte ai vaccini anti-Covid, dovremo mettere in campo argomenti molto forti che tuttavia troveranno sempre un’obiezione: prima vediamo gli effetti che fa il vaccino. I casi dei 23 anziani norvegesi deceduti nei giorni successivi al vaccino, i due casi italiani e i 10 casi della Germania dovranno essere esaminati con molto scrupolo per escludere in modo categorico il nesso di causa ed effetto: si tratta solo di semplici coincidenze?

  • Gran bel pezzo. Mi é piaciuta molto, oltra alla documentatissima carrellata storica, l’analisi psicologica dei negazionisti. A tal proposito, tanto per sdrammatizzare il cupo periodo che stiamo vivendo, mi diverte ricordare quella battuta di Pietro Martini che scriveva che mettere la testa sotto la sabbia equivale a rendere più vulnerabile un’altra parte.

    • Si, Ivano davvero memorabile quel ….”lampo” di Pietro! Apropo’ ‘ndo sta? Ci manca!

  • Grazie amici. Sui vaccini riprendo per la lezione UNI mettendo un estratto in Cremascolta, ma anticipo che, senza segnalazioni in fase I e II, difficile la connessione. a mia sperimentazione di un farmaco si è conclusa con la chiusura dello studio e i soldi spesi al macero, bloccata la produzione, brevetto distrutto.non si scherza. Sono stato breve, ma in quanto a profili psicologici i due duellanti ottocenteschi… Pagine che ovviamente mi affascinano

  • Davvero, Pietro va e viene, ma adesso è un po’ che manca…e “ci manca”.

  • Torna, torna!

  • Sono quattro giorni che al Tg3 delle 19, il bollettino sui positivi i decessi viene detto in fretta, anche tagliato. Siccome non sono scemo, non del tutto, dopo quattro volte che la mezzabusto dice in fretta i dati, che come al solito sono letti con i piedi, mezzo interrotti, si capisce bene che c’è una decisione direzionale di non preoccupare troppo gli ascoltatori, stanchi, spaventati. La prima volta ho pensato fosse un problema tecnico, ma la quarta volta che il bollettino “salta”, ho mangiato la foglia. Vediamo domani, se ancora salterà il bollettino

    • Ottima pista di negazionismo di regime! Fiuta e segui Marino! E informaci. Grazie

    • Marino, non dicono neanche più la tipologia di malati e morti, se giovani, anziani, fragilità, comorbilità. Io la mia statistica me la faccio tutte le mattine scorrendo i necrologi del cremasco, ma non so se attendibile. Occhio e croce dai settantacinque in su.

  • Ma non so se di Covid.

    • Quella di Cremona e provincia c’è su https://statistichecoronavirus.it/coronavirus-italia/. Circa l’uso tattico della pubblicità ieri mia moglie la notava nelle dichiarazioni di voto di ieri, ma le ho dato della complottista. Però…
      detto dalla moglie si fa presto, ma se sulla pista t mettono anche gli amici… istituiamo una sorta di osservatorio

  • Può darsi che siano stati intoppi tecnici di trasmissione, ma si sono verificati più volte. Sarà un caso. Chissà. I dati? Vengono dati alla carlona. Lo segnalo da tempo. Dire la verità in modo chiaro costa onestà informativa e disagio dell’ascoltatore, e in guerra, l’informazione governativa, da sempre vuole sollevare il morale dei concittadini. Anche ammorbidendo l’informazione.

    • Infatti l’ho scritto, ma prima o poi torna a galla, e dici tu, quando è tardi. Che poi entro certi limiti non è nemmeno sbagliato, perché cho è che ha i nervi saldi?

  • Visto che ad approfondire non si finisce mai, ancora due testimonianze storiche:

    Nel 1599 i medici di Burgos e Valladolid, in Spagna, con la peste che imperversa:
    “Per parlare con esattezza, non è la peste”; “Si tratta di una malattia comune”; “Si tratta di febbri persistenti, dolori al fianco, catarri e cose simili… Alcuni hanno avuto dei bubboni, è vero, ma guariscono facilmente”.

    Heinrich Heine racconta dell’epidemia di colera del 1832 a Parigi: i Parigini passeggiavano con maggiore allegria nei viali dove furono viste anche delle maschere, che, imitando il colorito malaticcio e l’aria esausta, schernivano sia la paura del colera sia la malattia stessa. La sera dello stesso giorno, i balli pubblici furono più affollati che mai.” Nella vicina Lilla la popolazione, in un primo tempo, credette che l’epidemia fosse tutta un’invenzione della polizia.

    E di che ci vogliamo stupire?

  • Ho apprezzato il tuo scritto, Adriano. Del resto, come autore nel campo della storia della medicina, chissà quante altre vicende di negazionismo epidemico e di oscurantismo antiscientifico potresti raccontarci.
    Essere “negazionisti” è abbastanza facile. Solo che poi, visti i fatti innegabili, a volte si deve diventare anche “affermazionisti”, cioè affermare altre cause di quei fatti o magari eludere la realtà con argomentazioni svianti.
    Questo “affermazionismo” sostitutivo delle spiegazioni scientifiche offre un catalogo arcinoto e persino noioso, nella sua ripetitività. E talvolta spassoso.
    Un classico è quello dei no vax meno tolleranti e più fanatici, con gli usuali corollari farmaceutico-cospirativi e il ricorrente repertorio degli eroici figli della luce spirituale di risalente sapienzialità contro le tenebre materialistiche della scienza meccanicista e dello scientismo senz’anima.
    Ma l’arcipelago del negazionismo scientifico e dell’affermazionismo alternativo è estesissimo. Il mettere in collegamento, con criptica allusività (una spruzzata di enigmaticità non guasta mai), l’egemonia occulta dei poteri finanziari con le derive scientiste e le conseguenti rovine etiche degli uomini attuali, appestati dalla contemporaneità, aggiungendo magari gli altri soliti ingredienti del minestrone negazionista e complottista, rappresenta solo una delle tante filastrocche sulla fine prossima ventura (persino con citazioni vediche), sulla malvagità dell’economia moderna e sulle successive rinascite metafisiche di una nuova generazione di spiriti purificati ed eletti, risorgenti dalle solite, note e sdate macerie di evoliana e maldigerita memoria.
    Il web è pieno di cose del genere. Tra e-bay e amazon e altri ancora esiste, in offerta scontatissima, un repertorio sconfinato di pubblicazioni di pronta beva e di enigmatico, suggestivo, messianico richiamo per gli innumerevoli soggetti di malcerta scolarità e di malcelata rancorosità sociale.
    Anche per questo, non pochi guru della tastiera si riciclano, da altri temi ormai non più in voga, verso questi più fortunati e più proficui allettamenti editoriali e mediatici.
    Ancora un forte apprezzamento per il tuo articolo, caro Presidente.

    • La ricorrenza del negazionismo può allarmarci, ma in fin dei conti anche farci sorridere, in quanto autolimitante, e se gli ultimi dati sulla consistenza necessaria di un’immunità di gregge, inferiore a quanto si prevedeva classicamente, sono esatti, c’è spazio anche per i novax (vedi l’ultima silvestrata) senza danni sociali.
      Ma l’affermazonismo che evidenzi non può non allertare le sentinelle, perché l’accoppiamento di deviata spiritualità e regime criminale è altrettanto ripetitiva nella storia.
      E allora dialogare per controsondare, con certe antenne dritte da fare invidia al più attento dei grilli.

    • Sì, Adriano. Antenne dritte e occhio vigile.
      Multa paucis.

  • 1.600 morti per Coronavirus in Gran Bretagna oggi. 600 circa in Italia. Più di 800 in Francia. 400 circa in Spagna.

    • Sì, ma la poilitica c’entra, perché quanti in Lombardia? E mi sarebbe piaciuto sentirlo affermare in aula ieri in risposta ad accuse campate in aria di malgestione dell’epidemia!

  • Più volte ho segnalato che al Tg3 delle 19, da almeno un mese, saltano le informazioni del mezzobusto di turno quando comunica i dati del bollettino quotidiano sul Coronavirus. Perché i dati sono letti come se ci fosse un singhiozzo informatico, che succede da molti giorni? Possibile che non ci si faccia caso? Siamo alle comiche; ma non c’è niente da ridere con 400-500 morti al giorno, che non hanno nome, età, e sono letti quasi con evidente fastidio e imbarazzo, tagliati da uno strano problema tecnico del TG3. Siamo quasi a 90mila decessi ufficiali, in Italia. Cioè, due volte la “cittadina di Inverness”, scrive Attilio Bolzoni su “Domani”, piccola capitale delle Highlands scozzesi, 45mila abitanti. Cioè più del “paesone di Busto Arsizio”, scrisse il “Fatto Quotidiano”, oltre 80mila abitanti. Se Busto Arsizio è considerato un paesone, Crema che cos’e? C’è un allergia informatica a spiegare correttamente i dati, pure di capire quando un luogo è, o non è città. Siamo in confusione. Urge studiare o ristudiare la geografia, e la statistica.

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