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LIVIO CADè

Metafisica e società

Metafisica e società

Lasciavo oggi vagare i pensieri in libertà, senza uno scopo. Mi è tornato così alla mente il vecchio distico del Silesius: “la rosa è senza perché, fiorisce perché fiorisce; non pensa a sé, che tu la guardi non chiede”, e mi chiedevo se possa concepirsi un atto senza un perché. Pare impossibile. Tutto deve servire a qualcosa, ogni parte ha la sua funzione nel tutto. Ma il tutto a che serve, a cosa serve la vita? Non siamo nati perché lo volevamo, non progettiamo di venire al mondo. Ma una volta qui, la nostra esistenza è una serie di atti motivati da qualche ragione. Quella che ci manca è una grande Ragione per cui vivere o morire. Spesso la cerchiamo, raramente la troviamo. Così, diventando vecchi, dobbiamo confessare a noi stessi che la vita è un mistero e che noi stessi siamo esseri enigmatici.

Qual è la sostanza di cui siamo fatti? Siamo esseri inclini al bene o al male? Inutile aspettarsi che la scienza risponda a simili domande. È materia di moralisti e metafisici. Per esempio, secondo Rousseau l’uomo nasce buono ma la società lo corrompe. Chateaubriand pensa invece che l’uomo sia malvagio per natura e che la società lo peggiori. Chateaubriand, nel suo pessimismo, sembra più logico. Infatti, se l’uomo fosse  essenzialmente buono, come potrebbe creare una società cattiva? Osservando la storia, appare più sensato credere che l’uomo nasca impastato con i peggiori istinti e le più turpi passioni e che la società amplifichi le sue inclinazioni malvagie. Si può invece pensare che l’uomo non sia né buono né cattivo per natura, ma un luogo di possibilità, un essere che plasma sé stesso e la società in cui vive attraverso una serie di atti imprevedibili. Si può anche ammettere che l’uomo sfugga ai nostri tentativi di classificarlo e di teorizzarlo.

Difatti, non basta sommare dati ed esperienze per avere un significato. I fatti sono gusci vuoti finché non li interpretiamo. Marx sbagliava quando pensava che interpretare il mondo e cambiarlo fossero atti distinti. Dare un senso alle cose le cambia. E peccava certo di presunzione quando pretendeva che la sua filosofia fosse la prima a passare dalla teoria alla prassi. Basterebbe pensare a quanto il pensiero cristiano ha influito in passato sulla società, la politica, l’arte, la scienza. In modo simile, ai tempi nostri, le tesi di Darwin, Freud o Einstein sono penetrate a fondo nel pensiero contemporaneo e nei suoi riflessi sociali. Ma l’idea oggi dominante è certo quella marxista secondo cui la storia è decisa da fattori economici. Il grigio dilemma che risuona nei cuori degli uomini, dalle più alte istituzioni politiche fino alla più modesta famiglia, è in fondo sempre lo stesso: “dove li troviamo i soldi?”.

Questa preoccupazione ha sostituito le grandi domande sull’anima, Dio o il destino. Noi crediamo di aver oggi abbandonato ogni idealismo astratto ma in realtà viviamo ancora, senza saperlo, immersi in fluidi ideologici e metafisici, come in una soluzione chimica. Solo la formula di questo fluido è cambiata. Una volta conteneva i nostri dubbi sull’aldilà. Oggi i suoi elementi sono puramente terreni. Sono i vari dogmi della materia, dell’evoluzione, dell’economia, della scienza, del progresso ecc.. Da queste radici si ramificano le multiformi immagini del nostro mondo.

A noi pare che le metafisiche del passato fossero oziose speculazioni. Crediamo viceversa che il nostro positivismo si basi sulla realtà dei fatti e sulle sue utili applicazioni. Questa è un’idea ingenua. Gli strabilianti risultati ottenuti nel campo della scienza e della tecnica ci illudono che la coscienza umana si sia evoluta. Ma noi abbiamo semplicemente fissato la nostra attenzione su alcuni ristretti fenomeni e abbiamo imparato a manipolarli. Per quanto grandiosi siano gli effetti di questa specializzazione del pensiero, essa ha comportato un prezzo assai oneroso. Chiusi in una bolla dai riflessi multicolori, abbiamo dimenticato il cielo immenso e misterioso che ci circonda, e in fondo questo ci ha resi più stupidi.

Per esempio, è senso comune riconoscere oggi il primato della prassi sulla teoria. Bisogna cambiare il mondo. La metafisica è al massimo un divertissement intellettuale. La conoscenza deve servire a scopi pratici, non può essere contemplazione disinteressata delle cose. L’essenziale è fare, essere concreti. Osservare la vita senza secondi fini è considerato un’inutile perdita di tempo. Che qualcuno sieda in silenzio a meditare, senza uno scopo preciso, è incomprensibile. Si dirà allora che quella pratica serve a rilassarsi, a combattere lo stress, a rendere la mente o il sistema immunitario più efficienti. Ogni senso spirituale va scrupolosamente evacuato, ogni visione mistica della natura o della storia va giudicata stravagante o malata. C’è solo il ‘fare qualcosa’ e attenderne i risultati.

Tuttavia, alla fine, dovremmo coerentemente chiederci a che tende il nostro agire, capire quale teorema metafisico lo sorregga. Si risponde di solito che il nostro scopo è un certo bene. Dunque dobbiamo preoccuparci dei mezzi per raggiungerlo. Ma possedere quei mezzi diviene un fine in sé stesso e richiede altri mezzi i quali diventano nuovi fini e così via all’infinito. Infine ci accorgiamo che siamo ben lontani dal bene sperato e molto vicini a un male non previsto. Quindi, deve esserci una falla nella nostra metafisica. Forse è il non saper distinguere tra mezzi e fini. Infatti, cose come il denaro o il potere non sono più visti come strumenti ma come beni in sé. Sono forze metafisiche che servono a creare altro denaro e altro potere, in un giro vizioso dal quale non si esce. È la nostra stessa metafisica che ci impedisce di vedere una via d’uscita. In fondo, è una nuova religione, ed è difficile dire se sia un culto della luce o del caos tenebroso. Si direbbe un culto della Forza, cioè una religiosità di natura demonica. E, visti i suoi risultati, vien da pensare che avesse ragione Chateaubriand.

LIVIO CADè

16 Giu 2019 in Cultura

99+ commenti

Commenti

  • Personalmente non ho mai pensato che fermarsi ad osservare fosse un’azione priva di senso. Tutt’altro. I grandi pensatori del passato erano tali non perché «saggi per natura» ma in quanto «saggi a causa delle circostanze», nel senso che guardavano, valutavano, riflettevano, agivano. E chi «fa», prima o poi sbaglia. Solo l’inattivo (anche mentalmente) non commette errori, a parte uccidere se stesso. Ma questo è un altro capitolo.

    Non ci sono confini tra il Bene e il Male, che non sono due cose «diverse» bensì due differenti aspetti dello stesso basilare principio unitario di polarità. Proprio perché ne sono convinta rifiuto di capire la tendenza moderna, e chiaramente ideologica, di dividere la lavagna a metà: “buoni” da una parte, “cattivi” dall’altra. O soldatini del politicamente corretti a sinistra e riottosi rivoluzionari a destra, che poi è la stessa cosa.

    Oggi quando il “buono” fa il “cattivo”, si dimette.
    Ma da cosa, dalla vita? E poi, torna “buono” … e scurdámmoce ‘o ppassato?
    Siamo matti da legare.

    • Rita, tu parli di “guardare, valutare, riflettere, agire” come se ci fosse comunque il dovere di passare dalla contemplazione all’azione. Io invece dico che questa del ‘fare’ è l’ossessione del nostro tempo. Bisogna invece, secondo me, tornare a capire l’importanza del ‘non-fare’, riscoprire il valore dell’inutile.

  • Rita, tu pensavi a dei koan. Te ne propongo uno (e galeotto fu Silesius):
    “Nel silenzio della sera la rosa spande il suo profumo. Perché?”

    • La butto lì, Maestro, e sono pronta a pagarne le conseguenze.

      Tutto inizia dal buio, e perciò anche la rosa comincia a “farsi”, cioé a profumare, quando calano le tenebre. L’orientamento buio → luce implica, trattandosi di un ciclo ininterrotto, anche il suo contrario luce → buio. Se è vero che la luce scaturisce dalle tenebre, è altrettanto vero che è destinata a sprofondare nelle tenebre.

      Siamo tutti figli delle tenebre, prima di diventare figli della luce. Anche la rosa. Anche noi, visto che il nostro corpo prende forma nel buio accogliente dell’utero materno prima di affrontare il viaggio verso la luce. Poi con la morte si rituffa nel buio. E infine, chissà, potrebbe esserci la luce in attesa di una nuova tenebra.

      Il buio, dopotutto, è la casa dell’anima.
      Forse il profumo è l’anima della rosa.
      E io ho ancora un sacco di cose da imparare.

    • E il silenzio?

    • E’ in fattore del buio.
      Tutto tace nel buio.

    • Stamane la rosa è sfiorita.

    • Rita, se lasci lì la tua rosa, morirà.
      Se la pianti altrove, morirà.

    • Forse è meglio precisare che non c’è nessun premio per chi indovina.
      È solo ‘caz-zen-eggio’…(di qualità?)

    • Certo la rosa muore in ogni caso. Ma il suo profumo ritorna sempre uguale alla fioritura successiva, che non coinvolge la rosa iniziale.

      Ciclicità del tempo?
      Cambiano le forme ma non la sostanza?
      Ci sarà sempre nell’aria un profumo di rosa, prima che faccia notte?

  • “I significati della rosa
    Eppure c’è un caso particolare di tautologia, la diafora, che non si limita a ripetere un concetto, ma lo amplia. Prendete l’esempio, celeberrimo, di Gertrude Stein: dice semplicemente “Rosa è una rosa è una rosa è una rosa”, e sembra compia uno sforzo inutile. Certo che una rosa è una rosa e, all’apparenza, la ripetizione ossessiva del termine sembra avere soltanto una funzione estetica (ripetetevi nella mente il verso come se fosse un mantra: è ipnotico e bellissimo). Invece succede che, a ogni nuova “rosa”, ci viene l’idea che il senso del discorso si faccia via via più grande, più misterioso e carico di significati che la semplice parola “rosa” non contiene. Che cosa succede? Lo spiega Umberto Eco in un saggio, La struttura assente, in cui individua addirittura cinque cose che succedono grazie a quella frase apparentemente semplice:

    c’è un eccesso di ridondanza, e la ridondanza genera tensione: la Stein ci vuole dire qualcosa;
    il principio di identità (“una rosa è una rosa”) è così marcato e ripetuto che diventa ambiguo: è davvero una rosa, quella di cui parla Stein? La terza volta che nomina la rosa intende la stessa rosa della prima volta?
    Perché Stein ci dice questa cosa in questo modo? Che cosa vuole dire davvero?
    Forse ripete ossessivamente la parola “rosa” perché vuole alludere ai suoi significati simbolici: ci sta parlando dell’amore senza nominarlo? Vuole solo suggerirlo? Dunque sì: la prima rosa è una rosa, la seconda forse è già l’amore… e la terza? (Tenete poi conto che, nella poesia, si nomina a un certo punto un certo Jack Rose…);
    Che cosa capisco io di quello che mi sta dicendo Stein? Lei dice soltanto “rosa”, e mi lascia libero di riempire quella parola dei significati che più mi appartengono e sento vicini. Chiama in causa letture, sentimenti, congetture. Chiama in causa me.”
    IO non so se davvero cerchiamo di dare un senso alle parole e di conseguenza alla vita che dobbiamo nominare per forza. Io ho l’impressione che dall’invenzione del linguaggio in poi siamo caduti in una trappola. Dall’invenzione del pronome IO ci siamo caricati di un peso enorme che pretende risposte continue a interrogativi più grandi di noi, come se nell’invenzione delle convenzioni, appunto il linguaggio, si possano trovare le risposte a dilemmi che non possiedono mediazione alcuna allo svelamento del mistero che siamo. Tutto è invenzione da illusionisti.

    • Purtroppo, o per fortuna, mi trovo lontanissimo dai meccanismi mentali di Umberto Eco. Secondo me, la sua analisi, così professorale, tradisce totalmente lo spirito di quei versi. Ma certo è solo la mia opinione.
      Lasciamo dunque in pace la rosa.
      Sull’illusionismo, mi ricordo che un giorno chiesero a Vivekananda (filosofo indiano dell’800, chi ha letto Romain Rolland sa chi è) qual era la differenza tra induisi e buddhisti. Rispose: “i buddhisti pensano che la realtà sia illusione, noi pensiamo che l’illusione sia realtà”.

    • ‘induisti’, pardon

    • Figurarsi se i figli dei Veda non sanno sempre una piu’ del diavolo.

  • Scritto prima di aver letto gli ultimi due commenti
    DIO, UOMINI, ALBERI
    Se mai Dio esistesse tra le forme di vita sul pianeta è scontato che quello che gli somiglia di più è l’uomo. Fatti a sua immagine e somiglianza si sente dire. Primo Levi diceva di non poter dire che Dio era stato buono con Lui, perché avrebbe voluto dire che era stato cattivo con altri. Di fronte all’uomo invece, anche lì se lo chiese, arrivando a ben altre conclusioni. Quindi credo che non si possa stabilire esattamente quale sia la natura dell’uomo. Nel riferimento alla Storia è scontato che si arrivi a dire che l’uomo è cattivo, nella vita individuale credo che si possa anche affermare il contrario. Blanche, la pazza, in “Un tram che si chiama desiderio” diceva di aver sempre confidato nella bontà degli sconosciuti. Il frate che somministrava pietosamente non so quale intruglio per alleviare (?) le sofferenze dei condannati al rogo era buono, il carnefice era cattivo, e tra la folla, ad assistere allo “spettacolo” chi si portava da mangiare, come noi i pop corn al cinema, e chi magari piangeva. Le madri sono buone coi propri figli, i pedofili, anche padri, no. E gli esempi sono naturalmente infiniti come il numero di uomini che vivono o hanno vissuto. Domandarsi quindi se l’uomo è buono o cattivo è un gatto che si morde la coda, non si potrebbe mai stabilirlo, e non c’è ragionamento che tenga. E’ questa la nostra metafisica: la realtà. Che si passi il tempo a guardare le stelle e infilare parole in astrusi concetti credo che questo come niente ceda il posto alla prosaicità della vita che continuamente si manifesta. Nella vita pratica, concreta, nel dolore al ginocchio che sento, credo che nessuna formazione allevierebbe la pena, e qualora passasse a quel punto questo si scorderebbe, per lasciare spazio ad uno star bene che neppure si ricorderebbe di gel e antidolorifici. Ecco, finalmente sto bene e sembra di esserlo stato sempre. Anche se di ginocchia ne abbiamo due. Poi ci sono i dolori dell’anima, anche quelli magari biologici o sociali, Levi e la sua esperienza, fino a chiedersi “se questo è un uomo”. Con una differenza sostanziale: il bene fa bene e mai lo riconosciamo, il male fa malissimo e lascia profonde ferite. Ma nonostante comparazioni o piatti della bilancia io credo proprio che non si possa stabilire una verità che, contraddizioni in termini, sarebbe sempre parziale. Dal mio punto di vista, sempre si contrappone al “fatti non fummo per vivere come bruti” la conclusione che all’invito” Homo sum humani nihil a me alienum puto” nessuno ha aderito se non quei pochissimi . Che poi il senso dell’essere uomini sia chiederselo dalla notte dei tempi, questo significa che se anche la nostra metafisica fosse porci delle domande, allo stesso la nostra metafisica sarebbe non riuscire a trovare risposte. Ed è umano così. Tanto, animali e piante, o pietre, mai si chiederanno chi siamo e come siamo, mai, morto Dio, si chiederanno se l’uomo è buono o cattivo, come noi con Lui (io no), altrimenti, se proprio dovessimo decidere io credo che abbia ragione Chateaubriand, ma anche qui è la realtà che mi orienta, non la metafisica. Intendo dire che non lasceremmo mai alle piante o alle pietre – fortunate- questo terribile interrogativo, come ha fatto Dio con noi. Abbiamo occupato il mondo spodestando Dio e ce lo stiamo sputtanando. Ma qui l’uomo non è né buono né cattivo, è solo stupido. E in questo, a differenza di Levi, io credo che lui (Dio, invenzione degli uomini assetati di metafisica, ma di fatto fatti di carne e basta) ci abbia lasciato una terribile eredità. Che bello quando l’uomo scomparirà finalmente dalla faccia della Terra e bene e male col loro segreto finiranno a marcire nella tombe. Nessuno dovrà più chiederselo al nostro posto. Certamente non animali o piante. Rispetto al senso invece, io credo oggi di non avere il tempo di pensarci, il signor Cadè fa qualche esempio, o uno, perché ho altro a cui pensare, e questo occupa tutto il mio spazio metafisico. Ah, dura e misteriosa realtà.
    P.s.: copio e incollo invece due commenti al post per me assolutamente incomprensibili, che evidentemente saranno metafisici.
    1) E’ in fattore del buio.
    Tutto tace nel buio.
    2) Stamane la rosa è sfiorita.
    3) Rita, se lasci lì la tua rosa, morirà.
    Se la pianti altrove, morirà.
    Insomma, questi tre brevi commenti che riscontro trovano, o espressione o esteriorità o concretezza rispetto all’innegabile e dura realtà? Insomma, cosa cavolo è la metafisica? E a cosa serve?

    • Commento troppo denso per poter rispondere adeguatamente. Solo un paio di appunti.
      Dio: qui non se ne parla perché abbiamo imboccato una via buddhista e il buddhismo, come è noto, è una religione atea (non è l’unica).
      Koan con risposte: per capirci qualcosa bisogna uscire dalla logica lineare (ma Rita in realtà non ne è uscita).
      Metafisica: ragione che trascende l’esperienza empirica ma non serve a nulla.

    • Ok, ricominciamo da capo: “Nel silenzio della sera la rosa spande il suo profumo. Perché?” Potrebbe essere un banale ridestarsi alla vita, ma la vita è un sogno, quindi la rosa spande il suo profumo per morire. Vuole vivere.

      Può volerci tutta una vita per risolvere un koan, secondo me ci sparano prima.

    • Ma la rosa sente il suo profumo?

    • Forse, Ivano, se esistessero ancora dei, sarebbero alberi. Ho discusso a lungo con alcuni vecchi amici, in queste sere che si disfano adagio all’orizzonte sui prati vecchi verso Passerera, intorno a questa cosa qua e adesso ti scopro a dire che, se gli dei tornassero tra le nostre rogge, sarebbero uomini. No, no, Ivano, se gli dei tornassero sarebbero alberi, credimi. La discussione è quali alberi, gli uomini sarebbero proprio l’ultima cosa che abiterebbero, figuriamoci le metafisiche e i metamondi inventati dagli uomini.
      La discussione è se gli dei possano tornare come faggi o come querce. L’albero non è metafisica, elaborazione intellettuale, surplus neuronale. Mondi di parole intese ad acchiappar nuvole e mistiche stupefazioni non valgono la divina dinamica degli zuccheri che vanno in su, dell’acqua che va in giù, della fotosintesi, dello scambio ossigeno e azoto. Noi fauna dobbiamo alimentarci di flora o di altra fauna. Al vegetale occorre soprattutto la luce. La cosa più vicina agli dei è il vegetale che cerca la luce, vive della luce. Noi uomini, invece, animali non evoluti ma involuti, spesso tradiamo il senso della terra per rincorrere sovrapensieri e sovramondi, perdendoci in labirinti e avvitamenti sinaptici senza uscita.
      Chi non vede la realtà si rifugia nella sovrarealtà. Come se lo Spirito stesse nell’elucubrazione metacognitiva, come se per superare l’esperienza empirica occorresse la metafisica. È la fisica naturale, forte e radicata, che sviluppa la metapsichica.
      A favore del faggio c’è la maggioranza, soprattutto adesso che si è tradotto Wohlleben. Io sto con la minoranza, quelli della quercia, che ogni tanto risfogliano Logan. Ne tengo d’occhio una, nei campi dopo la curva a gomito dell’Acquarossa. Appena scopro qualcosa, Ivano, te lo dico. Però tieni conto che lì ci si arriva con le ginocchia giuste.

    • A Livio: nessun animale può sapere se un fiore sente il suo profumo. Cosa ne sappiamo noi di cosa provano le altre specie? A momenti, siamo incapaci di distinguere le nostre sensazioni.

      A Pietro: dubito che gli dèi abbiano mai desiderato di essere alberi. Avevano degli alberi un rispetto, e probabilmente una conoscenza, troppo profondi per mettersi sul loro stesso livello. Ad esempio gli Æsir si riunivano ogni giorno all’ombra di Yggdrasill, sotto il quale c’era la loro «residenza sacra». Conoscevano così bene la Natura da sapere che ai piedi di un tronco secolare si viene naturalmente ispirati dai “pensieri alti” perché l’Albero è un elemento perfetto nella sua verticalità, il paradigma ideale della vita che cresce sviluppandosi su se stessa, ramificando verso il cielo.

    • Grazie, Rita, non lo sapevo. Cose bellissime, davvero. Però adesso forse conviene tornare alle procedure di infrazione, se no ci dicono che allontaniamo un’altra turba biblica dal blog.

  • Il tuo incipit, Livio, mi ha fatto pensare all’intervento (brillante, tranchant) di Umberto Galimberti giovedì sera al S. Agostino, un intervento (che ha sfiorato in alcuni momenti l’invettiva) caratterizzato, oltre che dalla lettura freudiana dell’uomo, dal nichilismo di Nietzsche, nichilismo che segnerebbe il nostro tempo, in primis l’assenza di scopo, un’assenza che si è fortemente insinuata nella mente dei giovani.

    La mia impressione è che il nostro filosofo (non metafisico, anzi anti-metafisico) generalizzi, tanto più quando parla dei giovani.
    I giovani non si pongono uno scopo? Ma quando mai?
    Tu, Livio, dirai: non si pongono degli scopi che vadano oltre la carriera professionale (sempre che di questi tempi si possa fare), oltre al denaro, oltre alla discoteca.
    Dalla mia limitata esperienza, credo che sia riduttiva una visione del genere.
    Certo, non pensano a un mondo meta-fisico, ma non credo che non si pongano dei “valori”: come si spiegherebbe, allora, il volontariato molto diffuso tra i giovani?
    Solidarizzare con gli… ultimi, non è un andare oltre la sfera del tornaconto materiale e inoltrarsi in una sfera del tutto “spirituale”?

  • Piero, ma perché vai ad ascoltare Galimberti? Perché farsi del male?
    A parte questo, tu mi attribuisci dei pensieri sui giovani che io non ho espresso.
    Per quel che conosco i giovani di oggi, mi sembrano disorientati. Ma non è di questo che volevo parlare.
    L’assenza di scopo che intendo io, come presupposto della contemplazione, è anche presupposto di libertà. Noi siamo incatenati agli scopi, a quello che vogliamo o dobbiamo fare.
    Ma siamo incatenati anche ai ‘valori’, che ci costringono sempre a cercare qualcosa. Il fatto di porsi obiettivi ‘spirituali’ non cambia la sostanza.
    Allo stesso modo, siamo incatenati alla nostra logica. Non dico che scopi, valori, logica, non servano. Ma ogni tanto bisogna sbarazzarsene e viaggiare più leggeri.
    Tu, mi pare, pensi invece alla mancanza di scopi nella vita nel senso di un nichilismo abulico che magari porta i giovani a drogarsi o cose del genere.

    • Che poi “spari” sui giovani uno come Galimberti, che, come diceva mia nonna, “al gha truat al Signur ‘ndurment” …. è davvero grossa. Vorrei vederli quelli della sua specie in giro in bici a fare i pony express per 4€ all’ora, quando va bene.

  • Signor Martini, non si illuda, le catene della Sua metafisica sono solide come le nostre.
    Lei abita come noi nel paese incantato delle parole.

    • Abito con molta concretezza umana e fisica, signor Cadè, per metà in via Lucini e per metà nella buona campagna nostrana, tra campi, rogge, alberi e animali. Non ho “catene metafisiche” perché la fisica naturale ambientale già mi offre sufficienti, solide, vaste prospettive di conoscenza, avvincenti scenari di scoperta, bellissime occasioni di appagamento. Non servono sovramondi metafisici potendo partecipare a tutto questo magnifico mondo di verità che abbiamo intorno; non servono aldilà intellettuali, filosofici, esotici, magari orientaleggianti, se si è capaci di cogliere la bellezza e la ricchezza di questo aldiquà di esistenza reale e di così forte impulso vitale. E poi, abbiamo tradizioni monastiche benedettine e cistercensi di altissimo valore spirituale, che non dicono “ora et medita” ma “ora et labora”. Personalmente rifuggo da certi incantamenti alloctoni basati su polverose suppellettili new age di tristissimo riflusso. Mi tengo l’Appennino, il Fuji ve lo lascio tutto. Thomas Merton ha già spiegato “lo zen e gli uccelli rapaci”. “We’re westerners, and proud”.
      Se esistono ancora dei, hanno forse qualcosa a che fare con questa dimensione naturale immanente e non trascendente, con questa sacralità vitale vegetale e animale, con l’incessante relazione tra questi esseri e tra le loro energie naturali, non con le superfetazioni cerebrali spesso frutto di una perdita di controllo e di equilibrio tra le sinapsi neuronali e la fisicità biologica.
      I “paesi incantati delle parole” cominciano dove finisce la terra grassa che calchiamo sotto gli stivali, il cielo ventoso che ci corre sopra la testa e il vecchio albero a cui ci appoggiamo mentre guardiamo brucare il nostro cavallo e spuntare dal fosso il nostro cane infangato. Provato questo, basta là, e gli altri si tengano tutte le loro metafisiche.
      E la rosa? Lo sappiamo: “Dat Rosa Mel Apibus”.

    • Ah, andiamo bene: dai koan ai Rosacroce.
      Qui, tra un po’, ci sparano per davvero.
      O, meglio, esce Adriano con il ditino alzato: ragazzi, la ricreazione è finita.

      A proposito di ricreazione finita, giusto di recente è riemersa dal mio archivio una performance poetica fatta dall’amico Puccio nella mai nata scuola di CL. Non c’entra niente con le rose, i koan e i Rosacroce (lungi da me la tentazione di tirare in ballo Deneb, la “rosa più bella sulla croce”, vade retro), ma va bene per rilassarsi.

      Qualche minuto dedicato alla poesia :
      https://www.youtube.com/watch?v=lYsbB-xgYOQ

    • Accidenti, Rita, non lo sapevo. Ho una vecchia stampa arrivata da chissà dove con su questa cosa ma non ne so nulla. D’altra parte, se il signor Cadè continua a fare post così interessanti, con le rose metafisiche, le rose mistiche e via dicendo, forse ci potranno scusare se noi cerchiamo di dire qualcosa di pertinente senza fare la figura degli ignoranti. Vorrà dire che faremo penitenza e diremo dei pater ave gloria a Salvini, Di Maio, Conte e Mattarella.
      Ma sei sicura, Rita, che il modulo statistiche che certamente avete segnali tutto questo disinteresse per le rose del signor Cadè e tutto questo interesse per l’imminente procedura di infrazione?

    • A fine settimana si vedrà a quanto è salito spread del blog.
      Dipende dall’umore dei mercati, cioé se farà più o meno caldo nelle ore pomeridiane.

  • Pietro, gli alberi sono già Dei. Gli uomini, avvezzi a classificare e catalogare tutto hanno elevato a divinità gli alberi secolari ormai censiti in tutta italia e nel mondo da moltissimo tempo. il Castagno Cento Cavalli nel parco dell’Etna, l’ulivo di San Francesco, querce, aceri, platani, (hai mai visto quello di villa Gavarina a Ricengo? Chissà se esiste ancora, lo davano malato già una trentina di anni fa) cipressi, sono inseriti in tour turistici come nuovi santuari per lo stupore di chi ha ancora la sensibilità di ammirarne la bellezza, la tenacia, l’architettura, il tempo. E bellissima la considerazione che non rubano niente a nessuno, che autotrofi si accontentano di luce acqua e suolo . E poi tutta la simbologia che ne segue, usati come metafora per le miserie e aspirazioni umane, le radici ben piantate per terra e i rami protesi verso il cielo, simbolo di armonia, di elevazione, guglie gotiche o rifugio a viandanti o cavalieri, accoglienti di altre vite, ma esempi di concretezza, fossimo anche solo ombra rigeneratrice per gli abitanti del deserto, senza aver inventato o suggerito alcuna metafisica, se non: “usateci pure come metafora della vostra vita, e imparate da noi, che, quatti quatti, in silenzio, siamo qui anche da quattro mila anni, senza aver mai fatto tolto nulla a nessuno, ma senza dubbio donando molto”. Imparate uomini, imparate. E non tagliateci.

    • “Fossero”, non fossimo, sorry.

    • Il platano sul retro della villa lo vedevo spesso dalla stradina che costeggia il muro. Da diversi anni è morto e insepolto. Era una delle poche essenze vegetali scampate agli orrori del Novecento, come l’altro vecchio platano a cui Carlo Alberto aveva legato il cavallo, nel parco di San Bernardino oggi devastato dagli impianti ginnico-ricreativi.
      Ma ce ne sono altri. Il problema è lo stesso che con gli uomini. Dopo una generazione nessuno si ricorda di loro, tranne che in casi particolari.
      Però io non ho detto che gli alberi siano dei o che gli dei siano alberi.
      Mi sono limitato a dire che ci sono assonanze interessanti nella nostra storia di sana gente occidentale. Ad esempio, in alcuni trattati di teologia si dice che “tutto tende a Dio”. In molti testi di botanica si dice che, dopo il lavoro preparatorio delle specie pioniere, “tutto tende alla quercia” oppure che “tutto tende al faggio”. Ma ci sono altri esempi. Qualcuno sostiene che su querce e faggi le prove non manchino, mentre sul resto, insomma, lasciamolo dire ai metafisici.

  • Curioso che l’altra sera, alla presentazione del libro di Rita, son venuti fuori il frassino sacro, Irminsul, i simboli celtici distrutti dal cristianesimo e sostituiti con santuari e madonne.
    E adesso anche qui, Macalli e Martini inclinano a culti arborei. Il bisogno del sacro si sta orientando nuovamente verso la ‘Natura’, o meglio verso il vegetale?

  • Rita, il koan ci sfugge ancora…come direbbe qualcuno, noi teniamo la rete e buttiamo via il pesce…dobbiamo impegnarci di più…forse potremo riparlarne tra qualche anno…giusto il tempo per koanizzarsi un po’…
    Nel frattempo possiamo parlare della metafisica del denaro, della metafisica del potere, della metafisica del desiderio…cioè di quello che sta mandando il mondo in malora.
    Ma parlarne vuol dire, secondo me, trovare una via d’uscita.

  • Che cosa regge l’urto del tempo ?

    • Dopo un rapido lampo, il tuono.

  • Anch’io Pietro non ho detto che I futuri Dei saranno gli alberi. Non avrei voluto puntualizzare, ma forse è meglio chiarire i fraintendimenti. Non so cosa abbia capito il signor Cadè. Volevo solo dire che spodestato Dio, e l’uomo sull’orlo del baratro, rimarranno solo gli alberi, che certamente non avranno ambizioni metafisiche che non voglio dire un cavolo, ma semplicemente continuerebbero a vivere anche senza le domande inevase che ci poniamo noi.

  • Signor Martini, io non voglio certo convincerLa, non credo di averne i mezzi. Solo, a me pare che Lei non si avveda del fondo metafisico dei suoi discorsi. Non perché Lei aderisca a una particolare scuola filosofica ma perché Lei è umano e usa il linguaggio. Questo fa di Lei, come di tutti noi, dei metafisici. Lei parla della natura, dell’aldiqua, della realtà, della verità, della bellezza, della sacralità di impulsi vitali. Dove abitano queste cose se non nelle Sue visioni metafisiche?
    E non vedo perché Lei debba alzare lo scudo.
    Questa metafisica fa parte della vita, della nostra natura, e io non mi sognerei mai di disprezzarla. Sia che si accasi nell’immanenza delle cose (la terra grassa, gli stivali, il vento e l’albero) sia nella loro trascendenza, cioè in ciò che le precede e le crea.

    Quello che io critico è la ‘nuova metafisica’: la metafisica del denaro, vale a dire della finanza speculativa e immateriale, slegata dai beni reali, isolata in trascendenti bolle che prima o poi scoppieranno lasciandoci nella miseria.
    O la metafisica del potere, che gronda di sangue. O la metafisica del desiderio, o quella della tecnica ecc.. Di questa metafisica vorrei parlare.

    Rispetto certo il suo orgoglio occidentale. Del resto, amo troppo la nostra cultura, la nostra arte, per non esserne orgoglioso anch’io. Non sono per nulla orgoglioso della violenza e della crudeltà che hanno caratterizzato la nostra storia e, ultimamente, non posso essere nemmeno orgoglioso di arte e cultura, visto che non esistono più.

    Anch’io non ho simpatia per le polverose suppellettili new-age o gli “incantamenti alloctoni”. Ma è chiaro che noi qui stiamo giocando, come gioca Lei quando ricorda le gesta di von Ungern-Sternberg. Non credo che Lei veramente voglia organizzare un esercito di mongoli o massacrare le persone. Così, noi giochiamo a usare un pensiero insolito, non lineare, e ci accorgiamo di quanto sia difficile. Addirittura può far arrabbiare qualcuno.

    Tuttavia, io credo di studiare seriamente la filosofia orientale da oltre 40 anni e di conoscerla abbastanza bene per provare per lei un immenso rispetto. In particolare, credo che la filosofia taoista sia l’unico vero antidoto oggi disponibile al cancro della modernità.

    • Potrei essere pienamente d’accordo con lei su tutto, signor Cadè, se non fosse per due elementi specifici, che però per me sono importanti.
      Il che significa comunque una cosa (che mi appare da qualche tempo sempre più chiara): sono davvero notevoli le nostre aree di condivisione più sostanziale.
      La prima cosa che non condivido è che le mie siano “visioni metafisiche”. Per me sono “esperienze psicofisiche”, molto umane e quotidiane. E per me sono le uniche possano forse, ma ci vuole anche un po’ di fortuna, diventare in rarissimi casi persino “esperienze metapsichiche” (uso il termine “metapsichica” e i suoi derivati nell’accezione del nostro concittadino, tanto illustre quanto dimenticato, il neuropsichiatra Ferdinando Cazzamalli).
      La seconda cosa che non condivido è che contro l’attuale Decadenza possa essere utilizzata utilmente e concretamente, qui in Europa, la filosofia taoista. Ritengo invece la regola e l’esperienza benedettina, anche con l’evoluzione cistercense, una delle possibili, ardue, faticose vie in grado di ricreare comunità di un certo genere, non necessariamente regolate dal diritto canonico ma da altre fonti di ispirazione.
      In ogni caso, grazie per questo interessante scambio di opinioni.

    • Vediamo allora i due elementi specifici, molto sommariamente.
      Nessuna esperienza (psichica o fisica o di altro genere) crea da sé il linguaggio, il simbolo. Il modo in cui l’esperienza diviene idea, sistema di concetti, implica una dimensione non empirica, che trascende l’esperienza (se non Le piace ‘visione metafisica’ la si può chiamare in altri modi, ma tutti sarebbero comunque pregiudicati dal loro uso storico).
      Sul secondo punto sono d’accordo con Lei e da anni spero nell’avvento di un nuovo monachesimo, che salvi nuovamente l’Europa. Tuttavia, temo che lo spirito di San Benedetto sia lontano dall’attuale cultura e impraticabile per noi quanto quello di Lao-Tse. Da anni, sulla scorta di quel che diceva un illustre sinologo, il gesuita padre Larre, che ne individuava i fondamenti comuni, sto immaginando una compenetrazione di taoismo e spirito evangelico (che non è certo il cristianesimo ufficiale). Ovviamente è un’utopia.

    • Abbiamo evidentemente un’opinione diversa sull’origine del pensiero, del linguaggio e di conseguenza dell’elemento simbolico e di altri fattori della cognizione e della volizione umana. Del resto, che si parli di metafisica o di neuroscienze, succede spesso di identificare punti di vista differenti.
      Di Claude Larre conosco più l’impegno linguistico al suo Istituto Ricci che altro (la multinazionale per cui ho a lungo lavorato ha un grosso stabilimento in Cina e il “Grande RIcci”, se ben ricordo in diversi volumi, troneggiava una dozzina d’anni fa nella libreria del CEO destinato là, con tanto di enunciati riconoscenti a Larre). Ma mi pare comunque che, nella vita, Larre abbia studiato e approfondito molto, moltissimo di più l’estremo Oriente e quelle religioni che il nostro Occidente storico e le tradizioni del nostro monachesimo, in particolare San Benedetto e San Bernardo. Insomma, il tipico, tipicissimo gesuita di quelli bravi, ma innamorato di quei posti là più che di questi posti qua. Ad averne qui a Roma. Tuttavia, grazie dello spunto. Approfondirò meglio. Con lei il bello è che c’è sempre qualcosa da imparare.

    • Larre era un buon cristiano ma non trovava sconveniente conciliare il suo amore per il Vangelo con il suo amore per Lao-Tse (oltre a ciò egli contribuì anche a fondare la Società Internazionale di Agopuntura).
      Sono molti i missionari che sono andati in Cina per convertirla e han finito per restare affascinati dallo spirito cinese.
      Personalmente credo che il Tao Te King (oggi si scrive Dao De Jing) sia il libro più profondo ed essenziale mai scritto. Non è un caso se ancora oggi viene continuamente tradotto e ritradotto, interpretato e commentato.
      Ma nello stesso tempo è uno dei più oscuri, e chi lo leggesse con gli occhiali della filosofia occidentale non ci capirebbe un fico.
      Io lo amo particolarmente anche perché non si può trovare nulla che sia così radicalmente antitetico al pensiero oggi dominante.

  • Livio, mi piacciono i provocatori e per questo li leggo (del resto, tu non sei un provocatore nella sua accezione più nobile?) e vado ad ascoltarli: non è un caso che Galimberti dopo quell’intervento abbia fatto discutere e molto (per giorni io ne ho parlato in casa e per giorni ho parlato con non poche delle 300 persone corse ad ascoltarlo).

    Mi sono riferito a quanto detto da Galimberti dei giovani e, rientrando nel tuo tema, ho semplicemente scritto che loro, i giovani, gli scopi li hanno (anche solo perché devono arrangiarsi per sopravvivere in questa stagione particolarmente difficile per loro) e li hanno anche per obiettivi non direttamente materiali.
    So bene che tu parli di “metafisica” e non semplicemente di “valori spirituali” (come la solidarietà con chi ha più bisogno), ma non possiamo pretendere – nel clima in cui vivono – che i giovani abbiano un… fondamento metafisico.

    • Purtroppo, come ho già detto parlando col signor Martini, io credo che per ogni uomo sia naturale avere un fondamento metafisico. Non si tratta quindi di averlo o di non averlo o di esserne più o meno consapevoli. Tra l’altro, si può professare a parole una certa filosofia ma avere un ‘sentimento metafisico’ totalmente diverso. Il problema è quindi: qual è la nostra reale metafisica?
      È questo che ho cercato, in poche parole, di dire nel mio pezzo. La metafisica del passato verteva intorno a Dio coma causa prima, all’anima come essenza fondamentale dell’uomo. Oggi predominano le metafisiche del denaro, del profitto economico, della verità scientifica, del progresso tecnico ecc.. Tutte realtà immateriali, a prescindere dai loro effetti (ma anche la credenza in Dio aveva effetti notevoli).
      E in tempi di crisi, ovviamente, prevale la filosofia del “aggio a campà pur io”. La quale è metafisica anch’essa, perché pone come necessità un essere contingente. (vedi il “debbo vivere, signore”, dicono molti. Al che io rispondo: “No, non è necessario”, del citato Carlyle).

  • Volevo aggiungere, per il signor Martini, a proposito dell”ora et labora”, che la concezione cristiana dell’orare non si riduce certo a una petizione di favori rivolta all’Ente supremo. Ha un significato molto più ampio che va dalla ripetizione di formule stereotipate (a volte brevi come mantra) alla meditazione, alla contemplazione, alle tecniche dell’esicasmo, alla preghiera del silenzio. Queste antiche pratiche sono diffuse in modo quasi simile a Est e a Ovest in tutte le religioni.

    • Grazie della precisazione, signor Cadè. Pregando poco, e non faccio dell’ironia ma lo riferisco solo per dire la verità, non ho molta cognizione di causa riguardo alle preghiere e men che meno ai mantra. E non so che cosa sia l’esicaismo, anche se il nome mi richiama certe risalenti baruffe degli eresiarchi del cristianesimo levantino. Adesso vado a cercarmelo.
      Comunque, era sul “labora” che mi permettevo di porre l’accento. Non per dare dei fancazzisti ai meditatori orientali, che i loro dei e profeti li abbiano in gloria, ma solo per indicare un elemento essenziale di questo modo così occidentale che abbiamo noi europei di coniugare lo Spirito con le Opere. Le fondamenta della nostra Europa sono anche benedettine e appenniniche, radicate presso di noi nel corso di molti secoli da uomini coraggiosi e molto pratici, fattivi, operosi, spesso arrivati dalle brughiere irlandesi e dalle foreste bretoni, dalle pianure francesi e dai boschi germanici, non dai paesi del sol nascente. Io non ho nulla contro Lao-Tse ma se dovessimo di nuovo perimetrarci contro la barbarie, come si fece allora (adesso però i barbari non vengono da fuori, i barbari siamo noi), mi farei bastare questi più che bastevoli esempi di come l’Europa non la si distrugge ma la si costruisce. E da bonificare, già sin d’ora, ce ne sarebbe, eccome. Con la consueta stima e con ancor più sentito apprezzamento.

    • Era solo per dire che anche in Occidente si è sempre meditato. Per altro, la mia conoscenza delle varie forme di preghiera è molto teorica.
      Credo che se Lei conoscesse meglio la cultura orientale si stupirebbe di quanto possa essere pragmatica, soprattutto quella cinese.
      Ma certo non si tratta di importare o di esportare tecniche mentali. Si tratta di aprirsi a concezioni della vita che ci possano aiutare a superare questo nero periodo di declino della nostra civiltà. E, come si dice nel Vangelo: lo Spirito soffia dove vuole.

    • Andrei piano a dare dei fancazzisti ai meditatori orientali. La vita nei monasteri non è poi così dissimile tra latitudini diverse. Anche stando in Italia si può averne riprova iscrivendosi a una sesshin al monastero di Fudenji: sveglia alle 5, un’ora di zazen nel dojo a qualsiasi temperatura senza riscaldamento, due mestolate di riso bollito per colazione, pulizia del monastero (cessi inclusi), due ore di studio con Guareschi, cura di orto e giardino, lavoro di cucina, studio assegnato, zazen, lezione con l’abate, cucina, pulizia personale, nanna. Ne ho visti tanti schiattare dopo un giorno soltanto. Poi, intendiamoci, non è obbligatorio. Ci sono altre strade per raggiungere più o meno gli stessi risultati, o forse migliori. Tot volte all’anno, comunque, i monaci di Fudenji meditano per brevi periodi con quelli di Camaldoli, segno che qualcosa in comune ce l’hanno.

    • “L’indolenza è malattia, la pigrizia è sudiciume. Strappa da te la freccia avvelenata dell’indolenza” (sutra buddhista).

  • Imprenditore neo umanista, un po’ benedettino, un po’ francescano, ma soprattutto socratico. Tanto il lavoro serve e il profitto, se non I’unico fine , se ben distribuito e restituito è di questi tempi una manna. Al trentatreesimo posto tra i più ricchi d’Italia, Brunello Cucinelli, o con due c, i suoi soldi li usa per far rivivere antichi borghi umbri e restaurare abbazie. Inutile dire che i suoi dipendenti , pagati oltre i contratti sindacali, stanno benone. Insomma, anima e profitto. Moderna metafisica? Se così fosse, Cucinelli, sarebbe un buon metafisico, con aspirazioni al cielo, ma coi piedi ben piantati per terra.

    • Questo sembra dimostrare che ci può essere un capitalismo al servizio dell’uomo.
      E che non si può demonizzare il capitalismo a priori, e tanto meno vedere un male nell’impresa e nel fare profitto.
      Il problema non è la ricchezza ottenuta col lavoro utile, che produce beni, ma quella in cui il denaro diviene metafisicamente il bene in sé, il fine ultimo, il valore assoluto.
      Infine, con un po’ di pessimismo, mi chiedo quanti Cucinelli esistano oggi…

  • 15:07. Signor Cade, mi pare si possa arrivare alla conclusione che la metafisica di tutti sia il pensiero. E tutti pensiamo. Poi dire che il pensiero sia nobiltà per tutti magari è un azzardo, ma continuo a pensare che qualsiasi pensiero, anche espresso nel vocabolario più complesso, si possa ridurre a minimi termini. Mi viene in mente Agostino o il suo biografo: “un cuore che sa…” E tutti i cuori sanno. E non andiamo mai oltre l’essere umani, anche vestiti della festa.

  • Cosa vuol dire meditare?

    • Teoricamente: nell’ascesi cristiano-occidentale meditare significa fermare il pensiero su un passo della Sacra Scrittura, riflettere sul suo significato più profondo.
      Nell’ascesi orientale indica più una forma di silenzio interiore, ma in realtà può riferirsi a pratiche molto diverse tra loro, che vanno dalla concentrazione su un oggetto all’auto-suggestione, alla visualizzazione interiore, alla contemplazione e via dicendo.
      C’è una sterminata letteratura sulla materia.
      Se Lei mi chiede: “a cosa serve?” non lo so dire. È comunque un’attività molto naturale per la mente, solo che ne abbiamo perso l’abitudine.

  • Ma a me interessava una risposta al mio commento precedente. Che poi non si sappia a cosa serve “meditare”, cioè a niente, io ne sono convinto da sempre.

    • In effetti meditare non serve a niente, come scrivere poesie o guardare un tramonto.

    • Mi scusi se non ho risposto prima al Suo commento precedente. Mi ci perdo un po’ in tutte ‘ste parole.
      Comunque, sì, c’è un’accezione tecnica di ‘metafisica’ (quella dei professori), ma io credo che l’essere umano sia metafisico per natura e che lo riveli nel linguaggio, nei simboli, nell’arte ecc.. Lo rivela anche la sua paura di morire.
      C’è chi vuole spiegare tutto ciò con l’evoluzione, con le neuroscienze e cose simili. Ma per me questa è cattiva metafisica.
      Che poi il pensiero si possa ridurre ai minimi termini è senz’altro vero. Bene-male, vero-falso, prima-dopo ecc.. Ma anche se fosse così questo non significa che non possa sviluppare una ricchezza infinita di significati. Guardi cosa hanno fatto nell’informatica con un semplice sistema binario!
      “Tutti i cuori sanno” mi piace…ma non sono sicuro di cosa Lei voglia dire.

  • ….e dopo il “sabato”, viene la “Domenica”. Troppa roba oramai su questo blog, nel fine settimana!
    Devo dire però che mi affascina assai assecondare le ….bizzarrie di questa “creatura” che in questa sua fase evo/invo-lutiva sta ignorando bella/mente (ops!) la sua “ragione sociale”!
    Dai, dateci dentro, e chi se ne importa dei “ma va laùra” che prorompono con becera naiveté da chi non si rende conto di …..con chi a a che fare.
    Del resto, ci vuol altro, per controbilanciare gli effetti devastanti di un qualsiasi cocktail d’urso/ventura/vespa/fubal & c propinato dalla “scatola”!
    O èè, o àà, fatecela vedè, fatecela ….pensà…..

  • Caro Livio
    preso da cose e pochi pensieri ti leggo tardi. Non avendo lasciato fin all’infanzia nessuna domanda senza una provvisoria risposta anche alla vita, come fenomeno senza apparente motivo, avevo pensato. La mia sempre provvisoria risposta è che vivendo accumuliamo pensiero, istinti di sopravvivenza, affetti, sono funzionali a questo fatto unico. Questo pensiero, ora sappiamo, viaggia per via epigenetica, si assorbe quasi con il latte materno, cambiando di strato in strato il senso di una parola, aggiungendone una e togliendone un’altra avvizzita… La ricerca del perché è un malfunzionamento mentale tutto occidentale. Meglio concentrarsi sul come e sul quando. Beninteso anche al perché ho dovuto pensare. Piero, leggendo un mio inedito quasi giovanile, fu colpito da un mio dialogo fra due personaggi, uomini di pensiero: “Ma a che serve Maestro?” – “Serve a servire”.

    • Sapere ‘come’ hai scritto questo commento non mi aiuta a capirlo. Con le dita, col naso, col computer, con la penna d’oca? E anche sapere ‘quando’ non mi serve molto. Il ‘perché’ è più interessante.

  • Che poi è come quando ci si interroga su cosa sia il tempo. Fisici e filosofi se lo chiedono, facendo congetture le più spericolate possibili. A me interessa sapere che inesorabilmente sono arrivato ad un certo punto del mio percorso. Considerazione che probabilmente fanno anche i signori di cui sopra, pur intellettualmente avendo in spregio la banalità che si invecchia e si muore. Sono come la ricercatrice che studia Marte e che afferma che senza la ricerca aerospaziale probabilmente non avremmo né tac né risonanza magnetica. Basterebbe risponderle che se i soldi della ricerca fossero spesi meglio, con più attenzione alla terra che non ai marziani, l’umanità ne trarrebbe un gran vantaggio. Probabilmente Ipazia non sarebbe d’accordo, ma chi per cui la vita è una fatica senz’altro sì. Col tempo che passa, come lo intendo io, non si ha modo di aspettare. O mi sbaglio?

    • Invecchiare e morire non è banale. Io ci penso ogni giorno. Sono molto portato allo struggimento. Pensare che devo lasciare tutto, anche questa carcassa cui, nonostante tutto, mi sono affezionato, mi turba molto. Più di ogni altra cosa mi turba il pensiero di non rivedere mai più certe persone. È banale?

  • Invece in questi di giorni di sfilate di moda maschile é molto divertente la metafisica degli stilisti che raccontano il senso filosofico delle loro collezioni. Sentire per credere.

  • Meditare è prendersi cura di se…
    Affezione a se…

  • Caro Livio
    ma è così difficile capire che voglio dire quanto ho detto? alle 7,20 del mattino ho scritto che il motivo della vita è produrre pensiero. Tutte la tappe intermedie sono finalizzate solo a questo. Un perché è troppo oltre la nostra comprensione, ma è anche una falsa domanda, in quanto le leggi di causa ed effetto sono applicabili solo su piccole scale. Non è necessario cercare un peché, ne ha di pù la rosa, originariamente fiorellino insignificante che noi abbiamo portato alla sua sfacciata bellezza e fragranza, lei inconsapevole, povero fiore, perché noi abbiamo voluto così!

    • Ma non si può vivere anche senza pensare? E sei sicuro che la vita abbia un motivo?
      Comunque, ripeto che il come e il quando si pensa è per me meno interessante che la ragione per cui si pensa.
      Scoprire che quando pensi a tua mamma o al tuo capoufficio si attivano parti diverse del cervello mi ha sempre lasciato freddo.

  • Anche per me naturalmente. Anzi, fondamentale, come i sentimenti, le paure, le emozioni. È questo per me metafisico. La realtà è metafisica e questo basta e avanza. Raccontato bene o male, che si finta di cercare risposte, o peggio, credere di averle trovate, fa parte di questo supplizio del vivere dettato sempre dalle circostanze, non dalle scelte di cui alcuni si riempiono la bocca. In balia del caso è compito umano raccapezzarsi in quel casino che a volte ti fa sentire felice, a volte di merda. Ma mai dipende da noi. Il corso dei nostri pensieri è ciò che di più è misterioso da indagare. Altro che meditazione e concentrarsi su qualcosa o altre tecniche, che chissà anche gli sdraiati di domenica al festival dello yoga al Sant’Agostino a cosa cavolo stavano pensando, magari a cosa preparare per cena. E in tutti i casi anche ponendomi domande, anche se arrivassi alla conclusione che anch’io sono metafisico, non mi sentirei né meglio né peggio, ma semplicemente facente parte di quell’umanità capace di elaborare pensieri, ognuno i suoi, sia che io sia un grande filosofo sia il buzzurro in canottiera con catenona d’oro, per usare un’immagine di Rita, ma che alla resa dei conti, appunto il ridurre il pensiero anche più alto ai minimi termini, diventiamo tutti uguali, cioè tutti allegramente o tristemente metafisici. Intanto dal mio ultimo commento il mio tempo è scaduto di un altro po’. E nessuna metafisica me lo potrà restituire. Del resto me ne impippo.

    • “Una di queste è l’ultima” (le ore sulla meridiana).
      Meditatio mortis.
      Seguono gesti apotropaici.

  • Riguardo al commento del signor Calzi:
    “Meditare è prendersi cura di sé…
    Affezione a sé…”
    Io non so bene cosa sia meditare. Credo però che tutti siamo colpiti dalla malattia del ‘fare’.
    E ne siamo talmente infetti che il ‘fare’ ci sembra ormai l’unica cosa giusta, anzi sinonimo di salute e di virtù. Si dice spesso “fallo e basta”. Il fare ha preso il posto dell’essere.
    Il fare è il produrre, è il mercato, è la tecnologia, è il progresso.
    Secondo me il meditare è antidoto a questa terribile malattia. Perciò si può forse dire che meditare è ‘non fare’.
    Se invece anche il meditare diventa un ‘fare’, allora non c’è speranza.

    • (Riconosco comunque che i commenti del signor Calzi tendono al ‘non fare’. )

  • Visto che i commenti languono anche ad altri post:
    “I koan – espedienti che favoriscono la meditazione – sono problemi oscuri ed assurdi, inventati e costruiti con cura, appositamente per indurre il discepolo Zen, a rendersi conto, nel modo più drammatico, dei limiti della logica e del ragionamento”. Vediamo alcuni esempi, di Koan famosi:

    – “Puoi produrre, il suono di due mani, che battono una contro l’altra. Ma qual è, il suono di una mano sola?” (Hakuin)

    – “Tutte le cose ritornano all’Uno, ma quest’Uno, dove ritorna ?” (D. T. Suzuki)
    Che verrebbe proprio da dire a questi bontemponi: andate a lavorare. Signor Cadè, ecco la differenza tra il meditare e il fare, con le conseguenze tutte di tutti e due i casi. Io ripeto quanto già detto: il non fare aiuta a sentire il tempo, col fare il tempo scappa via. Ad una certa età è meglio la prima.

    • Capisco che lo fa (voce del verbo fare) per passare il tempo, ma questo non La giustifica. Non basta fare un copia e incolla per capire. Personalmente non amo i koan ma in Giappone sono una pratica secolare e venerabile. Rientrano in un rigoroso addestramento del corpo e della mente cui si sottoponevano gli stessi samurai (famosi bontemponi).
      Non cerco di spiegarLe perché sarebbe come buttare benzina sul fuoco. Ma, se non lo sforzo di capire, almeno un po’ di rispetto per la cultura degli altri non guasterebbe. Immagino però che Lei definirebbe bontemponi anche Socrate, Meister Eckhart o Heidegger e a tutti costoro direbbe di andare a lavorare. In questo penso sarebbe imparziale.

    • Caro Livio, aggiungi pure alla schiera degli scemi di guerra Edward Lear e i suoi celeberrimi “nonsense”, considerati dalla coltissima classe intellettuale di fine Ottocento (inarrivabile per gli odierni opinionisti del nulla), espressione suprema dell’assurdo, autentica opera d’arte capace d’informare ogni piccola parte del Sé.

      L’arte, comunque, come un koan o un nonsense, non si spiega: o la senti, o non la senti.
      In tal caso, puoi dedicarti tranquillamente ad altro. Dov’è il problema?

    • Tra gli scemi ci metterei pure il reverendo Dodgson. I paradossi di Alice a volte ricordano un po’ il nonsense dei koan. Se la marmellata si può mangiare solo ieri e domani, quando potrò mangiare la marmellata?
      Ma Carroll si diverte con le parole. I koan mirano a rompere le gabbie del pensiero logico.

    • Certo che si. Carroll si divertiva soprattutto con la matematica.
      Senza questi superdotati buontemponi, senza i grandi saggi burloni della Storia, saremmo ancora in qualche caverna a sbranare carne cruda con una pelle di pecora sulle spalle. Nel bene e nel male, senza i dissacratori, senza i demolitori di pre-giudizi, senza i nemici dell’Ego che hanno avuto il coraggio di imboccare strade diverse, nessuna società progredisce né regredisce. Sta ferma, mentre ognuno pensa per sè e tira a campare alla meno peggio.

  • Certamente.

  • Chi sono gli scemi di guerra?

  • Per chi non sapesse cosa sono i gesti apotropaici sono quei gesti mirati ad allontanare le sfighe, tipo toccarsi le balle o toccare ferro. Volgarmente si dice scaramantici.☺☺☺E non se la prenda signor Cade’, ma non trovo modo più divertente per festeggiare la mia pensione. Ma prometto che da domani ritornerò la persona serissima (?) che sono sempre stato. Più o meno. Però anticipo quella che è forse la summa del mio pensiero: prendiamo Heiddegher e la sua vita non facile. Ecco, se la paragono ad altre vite più difficili, non mi riesce proprio di dileggiare quelle che magari, nell’affanno quotidiano, non elaborano altri pensieri se non quelli di arrivare a sera. E, se ci arrivano, meno fortunati e con meno doti, magari ce la fanno. La mia ammirazione va a loro. E questo percorso, mai concluso, le assicuro, comporta più fatica di qualsiasi speculazione intellettuale. Poi se la Storia dell’umanità deve più agli uni o agli altri non saprei dire. La Storia siamo noi…..

    • Ma io non direi a Heidegger di andare a lavorare. Non so se sia da ammirare più lui o chi pensa solo come arrivare a sera. Ma sicuramente anche Heidegger lavorava: insegnava, scriveva libri, teneva conferenze.

  • Signor Cadè, per arrivare a sera io intendo la fatica di vivere, magari il lavoro, i conti da pagare, una famiglia difficile da tirare avanti, certamente non i fancazzisti che hanno la fortuna di non dover lavorare o favoriti dalle circostanze. In tutti i casi la mia domanda era, e mi copio: “poi se la Storia dell’umanità deve più agli uni o agli altri non saprei dire” Gli uni sono gli intellettuali o i filosofi, gli altri sono quelli che nati male non trovano riscatto. Anche se, riconosco, i più bravi sono quelli che riescono a conciliare i due stati. Ma questa è un’ovvietà alla quale mi sottraggo.

    • So di non essere un’aquila, ma avevo capito quello che intendeva per “arrivare a sera”.
      Però io mi vorrei sottrarre alla retorica delle classi: i lavoratori, gli intellettuali, i ricchi, i fancazzisti ecc..

  • Non c’è nessuna retorica nelle classi.

  • La retorica delle classi è costata rivoluzioni, sangue. Magari ispirata dagli intellettuali, ma che pagano sono i soldati o i civili. Certamente non gli ispiratori. Ma anche questa è retorica. Riconosco. O no?

    • A me sembra retorico. Personalmente non giudico mai una persona in base alla classe di appartenenza (la ricchezza, l’istruzione, il lavoro ecc.). È in fondo una forma di razzismo.

    • Sono perfettamente d’accordo.
      Chissà quanti pensano che noi, qui, in questa piazza, che stiamo a fare certi discorsi “inutili” siamo in realtà degli inguaribili fancazzisti. Niente di più falso. Per quanto mi riguarda io ho sempre fatto almeno 3-4 lavori (lavoro retribuito, casa/famiglia, un paio di lavori non retribuiti, varie ed eventuali), e probabilmente anche voi. La mia giornata non finisce mai, non so quella della classe operaia che va in paradiso. Non ne farei una questione di classi sociali, anzi, oggi più soldi hai e più devi faticare per mantenere la posizione raggiunta. Il lavoratore dipendente, quando ha finito le “sue ore”, va a farsi un giro in bicicletta.

    • Su questo argomento io mi sono già compromesso molte volte (anche ultimamente ho messo tra le regole di vita quella di lavorare il meno possibile). Quindi non posso adesso fare l’apologia del lavoro. È chiaro che parlo del lavoro come forma di dipendenza e schiavitù. Il lavoro al servizio dell’uomo lo rispetto, l’uomo al servizio del lavoro no.

  • Per Rita delle 19:38. Come spieghi allora l’attuale classe politica? Vorresti dire che Salvini and company sono il risultato di millenni di culture e speculazioni filosofiche? Perché uno più uno fa due, mi pare. Quanto a quelli che ci leggono poi io non ho nessun senso di colpa. Non aspiro certo a sembrare l’intellettuale che non sono. Semplicemente ho più tempo di altri.

  • Questi voli pindarici mi stupiscono sempre.

    • Non sono voli pindarici. A meno che non si voglia dire che le conquiste di oggi negano quelle di ieri, in una linearità inesistente. E non si potrebbe dire “Senza questi superdotati buontemponi, senza i grandi saggi burloni della Storia, saremmo ancora in qualche caverna a sbranare carne cruda con una pelle di pecora sulle spalle”. Non è forse vero che le barbarie vanno e vengono? Come me lo spiega? Vale per la politica, per la società ma anche per il pensiero metafisico, se mai si capisse cos’è e a cosa serve. Le involuzioni nella Storia esistono signor Cadè. Non c’è conquista culturale che valga per sempre, la sua negazione è sempre in agguato.

  • Arrivare a Salvini passando per Silesius, Chateaubriand, lo zen, Hedigger e Carroll, se non sono voli pindarici questi!
    Comunque, Lei dice che esistono involuzioni storiche. Eccome! Io quella attuale l’ho definita ‘peste nera’. Ha già fatto una strage. È morta l’arte, è morta la poesia, è morta la filosofia, è morta la religione, è morta la dignità dell’uomo, stanno morendo il pensiero, il linguaggio. Le uniche cose che evolvono sono le macchine e mentre loro rapidamente evolvono noi scivoliamo rapidamente nella barbarie, nella miseria fisica e spirituale, nella schiavitù, nella distruzione della natura e della vita.
    Però, dire che la colpa di tutto questo è di Salvini o del governo mi sembra discutibile.

    • Potrei dire che evolvono anche le grandi banche, i grandi sistemi finanziari. Ma ho l’impressione che siano destinati, come i grandi rettili del Cretaceo, a una prossima estinzione.
      O forse è solo una speranza…

  • Non ho assolutamente detto che è colpa di Salvini. Salvini and company sono solo una conseguenza. Veda di capirmi e superi questa voglia di contraddirmi a tutti i costi. Perchè se anche Lei ritiene che la Storia subisca involuzioni, ad ognuno classificare le sue, allora siamo d’accordo.

    • Certo, ho solo usato un’iperbole retorica. Se Salvini fosse responsabile di tutto questo sarebbe l’Anticristo. Lei vuol dire, immagino, che Salvini è l’espressione di una involuzione storica e politica, del ritorno alla barbarie. Ma anche questo lo trovo discutibile. Certo tutti i ‘giornalisti’, gli ‘opinionisti’ e gli ‘intellettuali’ legati da morbosi amplessi alla ‘sinistra’ (bisogna mettere le virgolette a tutti questi termini perché non hanno più un significato preciso) si divertono a canzonarlo, a demonizzarlo, a vedere in lui il demagogo da strapazzo, il ‘populista’ insulso ma pericoloso, il vuoto cognitivo ecc..
      Però io non ho tutta questa fiducia nella capacità della attuale ‘sinistra’ di interpretare lucidamente (e forse nemmeno onestamente) il presente. Che meriti (intellettuali, politici, storici, sociali) può vantare questa recente ‘sinistra’ per giudicare gli altri? Semmai dovrebbe imparare da Bergoglio (che la sinistra tanto ammira) a dire “chi sono io per…?”.

  • Abbastanza d’accordo con Lei, e, visto l’argomento, avrà già letto il post di Pietro, immagino, dove tutta l’inconsistenza di certi personaggi è magistralmente descritta. E l’analisi sulla sinistra si potrebbe benissimo sviluppare lì. Ma non è comunque che siccome la sinistra latita nella lettura del mondo quella facile delle nuove destre sia quella veritiera. Certo che se si ci si accontenta dei soliti slogan “sarà un 2019 bellissimo” o “abbiamo abolito la povertà” o “nessun clandestino sbarcherà più in Italia” i signori in questione avranno per un altro pò vita facile (Pietro analizza e commenta meglio di me,) ma prima o dopo si schianteranno. Speriamo prima che non facciano schiantare noi

  • Signor Cadè, le offro un altro spunto di riflessione: la sinistra è umanista rispetto al tecnologico o materialismo o realismo delle nuove destre?

    • Signor Macalli, Lei mi fa una domanda che supera le mie competenze. Infatti, non so bene cosa significhi oggi ‘la sinistra’. È il PD? Non vedrei alcuna differenza allora tra umanismo della nuova sinistra e quello della nuova destra, a parte le sue espressioni formali più o meno ipocrite. L’utilitarismo materialista economicista tecnofilo ricopre oggi ogni ideologia.
      Tra l’altro non mi interessa attribuire patenti di ‘umanismo’. Io penso, con Heidegger, che quello che conta è l’essere, non l’uomo.
      Ho letto il pezzo di Martini. Mi è venuto in mente Carlyle: il sarcasmo è il linguaggio del diavolo: per questo da molto tempo vi ho praticamente rinunciato.
      Io sto cercando di rinunciarvi. Ma non posso e non voglio inserirmi in una discussione politica. Ho già scritto alte volte che considero la politica moderna m….
      Non c’è nessun politico oggi che mi piaccia. Puzzano tutti.

    • Anche a non volere, la “sinistra umanista” strappa un sorriso. Se ci si riferisce a quella italiana, il termine è inappropriato perché i suoi capoccia non parlano d’altro che nuove segreterie da formare e di correnti minoritarie da sgominare, sembrano quasi una banda di ladri. In Danimarca il mese scorso la “sinistra” ha vinto le elezioni grazie alla sua feroce politica anti-immigrazionista. In Francia il cuore dei salariati ormai batte a destra. In Germania le sinistre sono una democrazia cristiana fatta e finita. Ma chi è la sinistra, e chi è la destra?

      Se per “umanismo” s’intende la corrente ideologica figlia della pretesa di voler perseguire a tutti i costi il “progresso” dell’umanità, ci si riferisce all’elitaria portatrice di un modello di alienazione ed autodistruzione della medesima, mi sembra che la sua poltiglia liquida stia suscitando un’ondata di malessere dopo l’altra. L’individualismo progressista e buonista è entrato nella palude da almeno un ventennio, e questo è un bene perché chi sta per affogare tenta istintivamente di risalire a galla. Non è un caso che stiano spuntando come funghi identità coriacee, poco inclini alla domesticazione. Nessuno crede più a nessuno, figurarsi alle sinistre e alle destre..

    • Devo rettificare. Ho espresso un giudizio sommario e ‘razzista’. Non è vero che tutti i politici puzzano. Vi sono anche i galantuomini. È la politica nel suo insieme che puzza.

  • Grazie, signor Cadè, per l’immeritato riferimento ma purtroppo, a voler credere a Emma/Rita, sarebbe solo sarcasmo nord-uralico.
    Aggiungo che avrei continuato volentieri a interloquire di metafisica con lei. Ma dopo aver lavorato cinquant’anni per una media di oltre dieci ore al giorno, viaggi esclusi, e non a pettinar bambole, mi sono preoccupato che qualcuno mi “mandasse a lavorare” di nuovo.

    • Signor Martini, son sicuro che Lei abbia usato il registro sarcastico intenzionalmente, quindi credo che la mia osservazione sia stata rispettosa (rispettare=rispecchiare). È solo che, invecchiando, il sarcasmo non mi piace più.
      Pure a me piacerebbe discutere ancora di metafisica con Lei. Da dilettanti, certo, ma anche fare i metafisici è faticoso.

      P.S.: complimenti per il Suo stakanovismo. Io sarei morto prima.

    • Mai dubitato del suo rispetto. Le confermo che è reciproco.
      Non mancherà occasione di riprendere il dialogo. Conto sempre sui suoi post.
      Sullo stakanovismo, lo rifarei. Tengo famiglia. Da qualche anno, comunque, io e la vita siamo in pari.
      Magari, signor Cadè, potrei persino imparare a meditare.
      Devo però scegliermi l’albero giusto (l’ultimo mi ha riempito di formiche).

    • Signor Martini, se mai dovesse imparare a meditare mi dica come si fa, perché io non lo so.
      Io non sono capace di meditare e neppure di pregare. A stento ogni tanto rifletto su alcune cose, senza riuscire a capirle. È veramente increscioso, ma io temo di avere dei grossi handicap. A volte ho dei brevi rapimenti contemplativi, davanti a un fiore o a un volto, o ascoltando della musica, ma sono del tutto involontari e casuali. Per il resto, inettitudine totale. E questo mi crea un forte senso di inferiorità.

  • Che Rita ironizzi sull’umanesimo magari retrò della sinistra paragonato all’antiumanesimo delle nuove destre invece fa sorridere me.

    • Perché evidentemente il “prima gli italiani….

    • Ma in cosa consiste esattamente questo antiumanesimo?
      Io purtroppo ora devo assentarmi per una giornata di duro e sgradito lavoro, quindi non potrò partecipare a un’eventuale discussione. Però mi piacerebbe saperlo. Si tratta dei ‘negri’?

    • So che non si può dire ‘negri’. È solo un’allusione polemica.

    • La mia domanda sull’antiumanesimo delle nuove destre è rimasta inevasa…

  • Un gruppo tedesco di estrema destra candida Salvini al Nobel per la pace per aver evitato morti in mare. Penseranno: meglio i lager libici che morti annegati. Che bella pace: la nostra.

    • L’han dato anche a Obama… Ubi solitudinem faciunt, pacem appellant…
      Ma mi resta il dubbio sull’antiumanesimo.

    • Il Nobel per la pace e’ andato anche ad Arrafat e Obama, il presidente Usa piu’ guerrafondaio degli ultimi decenni. Ormai sui Nobel nessuno si stupisce piu’ di niente. Se comunque la geografia non e’ un’opinione, tra la Libia e l’Italia c’e’ la Tunisia, un Paese vivibilissimo dove innumerevoli italiani si trasferiscono per godersi in santa pace la pensione. Compreso l’ex-governatore siciliano Crocetta, segno evidente che i tunisini non mangiano i gay.

      Il problema, il grosso problema, e’ che la mafia nigeriana si e’ traferita in Italia e non altrove. Mafia chiama mafia, d’altra parte.

    • Un conto è discettare sulla politica estera di un Presidente (ha fatto troppe guerre? o ne doveva fare di più? doveva bombardare di meno o usare meno i droni?) un conto è dargli il Nobel per la pace, come se fosse il fondatore della Croce Rossa.
      E infine, ma è l’ultima volta poi rinuncio, mi piacerebbe sapere cos’è l’antiumanesimo delle nuove destre. È la xenofobia? È l’omofobia? La xyzfobia?

    • Intanto che aspetto chiarimenti sull’antiumanesimo faccio una proposta.
      Perché non dare il Nobel per la pace (postumo) a Hitler? Vedo infatti che quando si fanno operazioni di pace (quelle in cui si va a bombardare qualcuno per farlo riposare in pace) si usa citare Hitler. Cioè: “se non avessimo usato le armi non avremmo fermato Hitler” e cose del genere. Anche Obama lo dice (“Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare l’esercito di Hitler”) per giustificare le guerre ‘giuste’ degli USA.
      Se non ci fosse stato Hitler sarebbe più difficile giustificare tutte queste ‘operazioni di pace’ e quindi credo che gli andrebbe un riconoscimento.
      E Gandhi? Fosse stato per quelli come lui, oggi saremmo tutti nazisti.

  • “E Gandhi? Fosse stato per quelli come lui, oggi saremmo tutti nazisti”. A parte il fatto che le circostanze portano davvero tutti ad essere nazisti, o per lo meno più razzisti ecc., perchè Gandhi?

    • Lo spiega chiaramente Obama: “Un movimento non violento non avrebbe potuto fermare l’esercito di Hitler”. Quindi Gandhi avrebbe lasciato che Hitler dominasse il mondo e oggi saremmo tutti nazisti. (Leggi: il mondo è fortunato che ci sono gli USA).

  • Comunque sono d’accordo, il Nobel non solo a Hitler, ma anche a Mussolini. Senza di loro non avremmo avuto questi settant’anni di pace. Ecco, se non proprio a loro io lo darei all’Europa e ai suoi fondatori. A Salvini poi vedremo. Del resto questa sua politica un pò estrema dovrà pur portare a qualcosa, no? Per ora mi sembra prematuro, e credo lo pensi anche Lui. Pare che appena avuta la notizia, e di fronte a un giornalista, pare sia arrossito per tanto onore.

  • 11:17: bella considerazione signor Cadè.

  • Sempre per 11:17. Allora vede, signor Cadè, che Obama il Nobel se l’è meritato?

    • Altroché se l’ha meritato!!! 26.172 sono le bombe che Barack Obama ha lanciato solo nel 2016 (a moltiplicare per gli 8 anni di presidenza si fa presto) in Siria, Iraq, Afghanistan, Libia, Yemen, Somalia e Pakistan. Non le ha contate qualche pericoloso nazi-fascista omofobo e razzista, ma è quanto risulta dal dato ufficiale annuale del “Council on Foreign Relations”. Gli americani si vantano delle loro bombe, mica le nascondono al pubblico. Anzi.

      Se Obama è stato un uomo di pace, io sono la regina Elisabetta sotto mentite spoglie.
      Grande, grandissima, donna. E noi sempre lì, a dare premi alle mezze cartucce ………

    • Rita, dopo aver sganciato le bombe Obama diceva sempre “requiescant in pace”. Per questo gli hanno dato il Nobel.

  • Naturalmente per una risposta si presuppone il collegamento al link che ho proposto.

    • Ma io ho già risposto (alle 9:37). E aspetto ancora…

  • Signor Cade, non ce n’è alcun bisogno. A memoria o rileggendisi, quello che Lei ha scritto in questi anni è una summa dell’antiumanesimo.

    • Mi aspettavo una risposta migliore. Vabbé, pazienza…

  • Comunque se la sua è un’interrogazione scolastica mi dia un po’ di tempo per prepararmi, poi le rispondo, perché con Lei non mi pare che esistano esami di riparazione. Anche se con questa risposta le sto già rispondendo.

    • Ma no, chi interroga a scuola dovrebbe sapere la risposta. Io invece non so cosa sia l’antiumanesimo delle nuove destre. Per questo lo chiedevo a Lei. E ora che so che i miei scritti sono una summa di antiumanesimo sono ancora più curioso. Mi potrei fregiare dell’appellativo di ‘antiumano, troppo antiumano’ (si parva licet componere magnis).

  • Magari sta esalando l’ultimo respiro, ma questo blog non merita di morire. Ne ho approfittato in questi giorni di luce per una ricognizione nel passato, compiacendomi anche di me stesso, ma soprattutto degli scritti di altri. Mi sono posizionato in coda a questo post, un po’ per caso, un po’ perchè gli scritti di Cadé intrigano sempre, senza togliere merito ad altre firme naturalmente. Rinnovo il mio appello. Non so come sarà la nuova piattaforma, ho informazioni discordanti, ma se in coda al nuovo rimanesse il vecchio ne sarei felicissimo. Buona giornata a tutti, ai vecchi e ai nuovi che verranno e a chi ne prenderà le redini.

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