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ADRIANO TANGO

Silvestro e l’effetto paradossale dei prodotti biologici sull’ambiente

Uno studio su Inghilterra e Galles rivela che il passaggio a coltivazioni e allevamenti biologici, pur avendo un effetto positivo sull’ambiente locale, porterebbe a un forte calo della produzione. La conseguente necessità di importare merci a produzione intensiva dall’estero finirebbe quindi per provocare un aumento netto delle emissioni di gas serra anziché una diminuzione.
L’espansione delle coltivazioni e degli allevamenti biologici può dare un contributo al contenimento
dei gas serra, ma va considerata a livello globale e non locale. In caso contrario, ne deriverebbe un
maggiore sfruttamento del suolo su scala più ampia e un aumento netto delle emissioni. È quanto
emerge da uno studio pubblicato su “Nature Communications” da Adrian Williams, dell’Università di
Cranfield, nel Regno Unito, e colleghi dell’Università di Reading. Il risultato è limitato geograficamente
a Inghilterra e Galles, ma potrebbe servire come modello anche per realtà più grandi.
In termini teorici, i metodi biologici consentono di ridurre le emissioni del 20 per cento per ogni bene
prodotto nel caso delle coltivazioni agricole e del 4 per cento nel caso degli allevamenti. Se tutta la
produzione agroalimentare dell’Inghilterra e del Galles fosse ipoteticamente convertita a questi metodi
produttivi, l’impatto sulle emissioni di gas serra sarebbe dunque rilevante.
Il rovescio della medaglia, secondo i calcoli degli autori, è che rinunciare allo sfruttamento intensivo di
terreni e animali da allevamento porterebbe a un calo della produzione del 40 per cento. Se il fabbisogno alimentare delle due regioni non diminuisse in proporzione, sarebbe necessario ricorrere a merci di importazione prodotte con metodi intensivi e che dovrebbero affrontare un trasporto più o meno lungo per arrivare sulle tavole dei consumatori. L’effetto netto sarebbe dunque un aumento delle emissioni di gas serra e non una diminuzione.
Secondo i ricercatori, dunque, bisogna ragionare in termini globali su tutte le possibili conseguenze di processi che appaiono utili se considerati singolarmente.
“Anche se i metodi biologici portano indubitabilmente a benefici ambientali locali, compresi un maggiore sequestro di carbonio nel suolo, la riduzione dei pesticidi e il miglioramento della biodiversità, occorre considerare queste pratiche rispetto anche alla maggiore richiesta di produzione di merci da altre parti del mondo”, ha sottolineato Guy Kirk, professore dell’Università di Cranfield e coautore dell’articolo.
Occorre quindi riflettere anche sulle abitudini dei consumatori. “Le considerazioni sulla dieta sono cruciali: il consumo di prodotti biologici attualmente riflette una scelta personale e non è rappresentativo delle abitudini della nazione”, ha concluso Williams. “Certo, lo stesso territorio, con un altro tipo di dieta nazionale, avrebbe fornito probabilmente risultati differenti, ma sarebbe stato un altro studio: il nostro obiettivo era capire i limiti della trasformazione dei metodi di produzione”.

ADRIANO TANGO

31 Ott 2019 in Senza categoria

1 commento

Commenti

  • Direi che non ci piove, ma ci sono elementi dissonanti:
    1) Il biologico per fortuna rende, e seri coltivatori, fra l’altro molto istruiti, spesso intellettuali, il che non guasta, ci guadagnano, e noi ci guadagniamo in salute.
    2) La cosa va vista come un primo passo di apprendistato. Spetterà poi alla politica riequilibrare il mercato con tasse per chi non si adegua.
    3) La tendenza rende al sistema Italia, al quale perdono anche idiozie tipo no OGM, prive di fondamento scientifico, purché tenga alta la propria tipicità a livello mondiale (a Dio piacendo e a Trump per fortuna dispiacendo).
    4) Evidente che questi dati mettono allo scoperto ancora una volta l’unica logica: dobbiamo essere meno numerosi per poter coltivare più estensivamente, e lasciare anche riposare la terra. Dobbiamo essere meno numerosi perché serve spazio per la natura incontaminata. Penso che accadrà, secondo un principio di economia: ci si renderà conto anche nelle fasce sub sahariane che mettere al mondo figli non costituisce un capitale ma una spesa, man mano che la pastorizia uscirà dalle fonti di sostentamento comuni.

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