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ANNA ZANIBELLI

QUANDO L’AMORE ERA APPESO A UN FILO

Ai tempi della mia adolescenza non esistevano gli smartphone e tutto era molto più complicato. Il “ti chiamo alle otto“ significava trangugiare alla svelta il secondo e iniziare a posizionarsi vicino al ricevitore prima che a qualcun altro venisse la malsana idea di fare una telefonata. Il che succedeva praticamente ogni sera.
Guardavo mio padre sfogliare la rubrica del telefono come se avesse avuto in mano un esplosivo. Certo, se il ragazzo in questione avesse trovato occupato, avrebbe sempre potuto richiamare ma… E se invece non lo avesse fatto?
Aspettavo che papà finisse, quasi al limite dell’ansia, dopodiché stavo lì: un occhio ai libri da studiare, un occhio al telefono fisso.
Rispondevo sempre nascosta dietro al divano, l’unico luogo in casa in grado di garantirmi un po’ di privacy. Il solo inconveniente era il filo grigio, tirato al massimo come un elastico e mimetizzato tra le piastrelle gelate, sopra le quali mi appollaiavo per tempi incalcolabili.
Quando arrivava l’estate e si andava in vacanza, c’era la cabina telefonica dove riuscire a fare una telefonata era come fare un prelievo del sangue. Si rimaneva in fila in attesa anche più di mezz’ora, con in tasca le monete prima e le tessere telefoniche poi. In pieno agosto, quando nello stretto cubicolo rischiavamo di contrarre ogni morbo o svenire per carenza di ossigeno, chiamavamo i fidanzati sparpagliati su altri lidi.
Certo, telefonare non era una comodità come lo è oggi, ma volete mettere la soddisfazione, dopo una litigata, di sbattere giù secca la cornetta telefonica?
Del resto furono proprio le pene d’amore a spingere l’inventore Alexander Graham Bell a mettere a punto un apparecchio in grado di trasmettere suoni. Il professor Bell, nel 1870 circa, si innamorò perdutamente di una sua allieva, ricca ma sfortunata ragazza poiché aveva perso l’udito a causa di una violenta scarlattina.
Bell brevettó per la sua amata un prototipo di apparecchio telefonico, già sperimentato dall’italiano Meucci che, in seguito, aggiunse diverse innovazioni rivendicandone la paternità.
Che dire… l’amore e il telefono sono sempre andati dunque di pari passo. L’unico forse a non essere tanto d’accordo era mio nonno. Una sera, nel corso di una delle mie telefonate-fiume dietro al divano, aveva inciampato nel filo del telefono e si era quasi rotto il collo. Ogni volta che stava per cambiare il tempo infatti, memore del tuffo acrobatico da una parte all’altra della sala, si toccava sia il gomito che il ginocchio doloranti esclamando: “avrei sacrificato volentieri braccio e gamba se almeno, quel tipo, te lo fossi sposato!”

ANNA ZANIBELLI

11 Feb 2021 in Antropologia

6 commenti

Commenti

  • Piacevole assai il “come eravamo” di Anna!
    Anni ’50 primo telefono in casa: telefonata “intercomunale”, poche parole a gran velocità, prima che la “signorina” dicesse “raddoppio”?
    Precipitoso saluto e ….metti giù, che se no la bolletta va su!
    C’erano poi gli accordi sul numero degli squilli con i quali comunicare, senza pagare nulla!
    E le prolunghe, che si vedevano nei film americani, non esistevano ancora (non c’erano le prese!) tutto quanto attineva all’impianto telefonico (che era poi unn doppino e nula più!) era assolutamente off limit. Il telefono era una specie di ….magia intoccabile!
    Nostalgia!

    • È vero!Gli squilli per comunicare! Li avevo dimenticati e quanto era bello sentire che, dall’altra parte, eri nei pensieri di qualcuno 😊

  • Bello Anna, bello, umanamente, letterariamente.
    “…con in tasca le monete”, e io che con la mia attuale signora dovevo decidere una sede abitativa comune, un futuro intero, da due poli dell’Italia unita… solo da un filo, ne portavo una bisaccia, perché per avere un allacciamento personale, campa cavallo!
    Ancora brava.

    • Grazie Adriano😘

  • In fila indiana al Centro Addestramento Reclute di La Spezia, dentro l’Arsenale Militare grande come una seconda città, c’era un solo telefono a gettone, per chiamare la morosa. E c’era chi stava al telefono così tanto che si prendeva gli insulti; meritati.
    Al tempo del telefono a giradito, un mio amico, a pranzo a casa sua, in una villa che aveva un salotto grande l’intero appartamento dove abitavo allora con i genitori, mi raccontò che una notte, suo padre, in pantaloni del pigiama e pantofole, era salito di sopra, bussando alla camera del figlio. “Sì, che c’è” chiese stizzito il ragazzo, che era notte e stava litigando al telefono con una ragazza. “Apri” disse secco suo padre, e intanto mangiavamo il risotto, suo padre sorrideva; “apri questa dannata porta”. Il ragazzo spalanco’ facendo finta di essere assonnato, dopo aver chiuso la telefonata, bruscamente. “C’e che questa casa, non è il paese dei campanelli? Hai capito? Ti entra nella tua zucca o devo ripetere?”

    • Bellissimi questi aneddoti… 😊

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