menu

FRANCESCO TORRISI

LAWRENCE FERLINGHETTI – Scrivendo sulla strada (Il Saggiatore, 2017)

Riceviamo e molto volentieri pubblichiamo questa appassionata, emozionante, commovente recensione di DONATA RICCI del “ Scrivendo sulla strada – Diari di viaggio e di letteratura“, del grande Lawrence Ferlinghetti nel testo già apparso su “Rootshighway” – http://www.rootshighway.it/bookshighway/books168.htm

[la foto di copertina è anche tratta da “Rootshighway”]

L’occasione è la recente scomparsa di Lorenzo Ferlinghetti e poterci giovare delle parole di Donata, che ritorna dopo una lunga assenza sulle pagine di CremAscolta, è davvero un’occasione da non perdere!

Buona lettura.

        “Lawrence, cos’è il Jefferson Airplane?” Quando gli ho spiegato che era un gruppo rock che avrebbe suonato solo alla fine del reading di poesia, ha detto “Lawrence, solo tu ed io. Niente Aeroplano” Ma più tardi ci ha ripensato e ha detto “Ok, non cancellare l’Aeroplano” … E i Jefferson Airplane sono decollati. Un botta e risposta con il poeta moscovita Andrej Voznesenskij in cui, nonostante la divergenza di vedute, non c’è ombra di tensione. Archetipico del Ferlinghetti-pensiero. Si scorrono le migliaia di pagine della sua produzione letteraria e i suoi 35.770 giorni (98 anni) di vita fin qui vissuta, senza incappare in uno scostamento dal pentagramma della moderazione. Si direbbe serenità genetica, predisposizione empatica verso l’uomo, favorita dal disinteresse per ogni forma di conflitto. Le arrabbiature non mancano, ma sono sane e sanno contenersi in invettive pacate. Il pensiero è profondo e lieve insieme, immune da cedimenti alla superficialità e soprattutto al vuoto di senso: ogni frase, ogni verso ha un significato e non è così scontato, se ci pensiamo. I vocaboli sono pertinenti, le onomatopee giovano alla causa, l’interpunzione e la metrica fanno il resto. Tutto ciò colloca questo scrittore fra i titani della contemporaneità. Si serve dell’ironia per conservare la misura e non prendersi troppo sul serio. Ironia pluridiretta: Il mondo è un gran bel posto per nascerci se non vi dà fastidio che la felicità non sia sempre poi tutto ‘sto spasso. Autoironia: Ho visto le menti migliori di varie generazioni uccise dalla noia ai reading di poesia.

E sì che non gli mancherebbero ragioni per esercitare il rancore, a partire da quel destino familiare che gli ruba il padre prima che lui nasca e che accompagna la madre, troppo fragile per crescerlo da sola, dritta in manicomio. Eppure, tra zia Emily e famiglia adottiva, il ragazzino Lawrence riesce a tener saldo il timone della propria esistenza, tirandone fuori il miracolo che sappiamo. Che è generosamente raccontato nelle cinquecento pagine del fresco di stampa Scrivendo sulla strada – Diari di viaggio e di letteratura, sapientemente tradotto, ma soprattutto fortemente voluto, da Giada Diano, divulgatrice del verbo ferlinghettiano nel nostro Paese (n.d.r. Giada ha curato la recente, interessantissima mostra bresciana A life: Lawrence Ferlinghetti, Beat Generation Ribellione Poesia, nonché quella veronese del 2016). Un diario che è una bibbia laica da tenere sul comodino e da centellinare sera dopo sera per succhiarne il nettare senza nulla sprecarne. Perché da ogni segmento di questo incessante viaggiare che copre mezzo secolo, da un capo all’altro del pianeta come una biglia da flipper, emanano una saggezza affatto cattedratica e un impagabile senso di pace. Non è mai arrabbiato Lorenzo, come lo appellava l’indimenticabile Fernanda Pivano in omaggio alle sue radici italiane, anche quando ne avrebbe ben donde. Di fronte ad una situazione negativa, ne constata l’oggettività, per derubricarla subitaneamente a categoria delle umane manifestazioni e passare oltre, verso ulteriori conoscenze. Un antropologo lirico. Sempre curioso, con quegli occhi marini che scrutano sornioni, desideroso di comporre il grande poema indelebile o più semplicemente che abbia luogo la prima erezione e la prima Resurrezione. Una dolce inquietudine, un duende che gli fa dire cose come da qualche parte ho letto il Significato dell’Esistenza ma mi sono dimenticato esattamente dove. Aspetta il suo turno e aspetta soprattutto a rebirth of wonder, una rinascita dello stupore. Lo fa con uno stile tutto suo perché, ormai lo sappiamo, Lorenzo non si considera un beat, pur avendo pubblicato, amato, difeso come figli gli scrittori della Beat Generation. Preferisce definirsi bohemienne e mi sa che ha ragione lui. Anche se non è a questa definizione che avremmo pensato allorquando, in divisa da capitano di un cacciasommergibili della Marina americana, fu testimone dello sbarco in Normandia. Però è facile immaginare come la sua sensibilità sia stata scossa visitando Nagasaki poco dopo che l’atomica l’aveva rasa al suolo. E come, in un’allucinazione da notte messicana, sia maturata la sua soave iconoclastia contro il potere politico (Sull’autobus sono tutti diplomatici in tight e si stanno soffiando il naso con varie bandiere. La bandiera più popolare per questo scopo sembra essere quella nordamericana… Una stella cade dalla bandiera, la raccolgo e la metto in tasca. Uno stato extra può sempre tornarmi utile). Prende a sberleffi le istituzioni nella loro pretesa di supremazia sulla libertà dell’individuo, ieri come oggi: quando nel 2016 compare via Skype agli amici veronesi dal suo rifugio di North Beach, Lorenzo indossa la maschera di Lady Liberty e prende posizione contro Trump. Non poteva prevedere, questo vivente di lungo corso un’altra pugnalata alla schiena, la più grave. Il primo esempio di fascismo realizzato negli USA.

Per autodefinizione poeta & folle, peccatore & viaggiatore assurdo, Ferlinghetti porta i suoi reading di poesia in ogni anfratto del globo. A chi ama il rock’n’roll è rimasto nel cuore il suo intervento a The Last Waltz della Band, dove recita un personale e apocrifo adattamento del Padre Nostro. Intanto accumula conoscenza su e giù per il continente, a piedi, bang bang, su qualsiasi mezzo, treno, macchina, fuoristrada, diligenza, a piedi, sulle Grandi Pianure, carri dei pionieri nella notte. Incontra lampioni ubriachi di solitudine nelle stazioni ferroviarie del Wyoming; a New York finisce con Jack Kerouac a casa della sua ragazza nelle West Seventies giusto per chiedersi: e a ogni modo, che ci faccio qui con lui, a un certo punto dell’eternità? Nel 1967 sale su un Soviet Air Flot con rotta sul Grande Inverno Russo, sorvolando una pianura marrone chiaro (Sopra quale storia stiamo volando?) per poi affrontare i trenta gradi sotto zero della tundra e il delirio febbricitante della Transiberiana (C’è un vuoto immenso nella vita sovietica che guarda fisso dagli occhi delle persone ovunque). Come la solitudine, cercata ma anche un poco subita, a Oaxaca, Messico, in un rovente pomeriggio di agosto dell’82 (La solitudine è ancora una maledizione. Le persone che volevano accompagnarmi in questo viaggio devono capire, ancora una volta: devo essere solo in viaggi come questo. Altrimenti non sarebbero viaggi come questo). Solitudini necessarie, solitudini differenti. Quella rigenerante delle Pleiadi intraviste dal capanno di Big Sur, ma anche quella desolante di un’America da brochure promozionale che millanta un resort a Salton Sea, California, dove non c’è traccia di spiaggia, ma ci sono le case sulla spiaggia (Immagina di dover trascorrere una vita condannato a passare da un motel a un altro, da una stanza d’albergo a un’altra, tutte uguali, prima classe, le stesse lenzuola immacolate, gli stessi bicchieri avvolti in carta sterile cerata, la Bibbia di Gideon nel cassetto, nessuno a cui parlare a parte gli impiegati dell’albergo… Solitudine di milioni che vivono così, tra cocktail, stazioni di servizio, autobus, treni, paesi, ristoranti, cinema, autostrade che conducono oltre gli orizzonti fino a un’altra Fermata. Tristi i fagotti nelle sale d’attesa delle stazioni degli autobus, tristi le donne con i capelli crespi sedute accanto ai fagotti, le vecchie coppie sulle panchine che parlano in vecchie lingue, i clandestini messicani con le borse a tracolla che si risistemano nei bagni degli uomini. Triste speranza di tutti i loro viaggi verso il Nulla e indietro nell’Eternità buia… Ogni cosa sembra essere a un punto morto. Le persone, i film, l’arte, la politica, la terra stessa, ogni cosa in attesa, bloccata, addormentata o morta). Non sorprende che porti con sé una copia di Incubo ad aria condizionata di Henry Miller.

Ma c’è anche il Lorenzo dell’impegno civile, o dell’onesto disimpegno. Va in Nicaragua nell’84 per regalare a Ernesto Cardenal, poeta e ministro della cultura, il seme di un fiore cresciuto sulla tomba di Boris Pasternak: testimonianza della capacità della poesia di trascendere le frontiere. Ha in testa la convinzione che quanto sta accadendo nel Nicaragua sandinista non sia, di fatto, una rivoluzione, ma piuttosto il rovesciamento di un tiranno – Somoza – appoggiato dagli Stati Uniti (rieccoci…), giungendo alla conclusione, sempre più dissociata dal pragmatismo politico e sempre più ebbra di poesia, che ogni posto è come ogni altro posto a quest’ora della notte. E prima ancora a Cuba – 1960 – per una esilarante parodia della presunta pericolosità del governo castrista (Sto tenendo gli occhi ben aperti per vedere bande erranti di Soldati Ribelli armati, con l’ordine di sparare a vista a chiunque sembri sospetto). Perché, diciamolo, il poeta cieco per autodefinizione in realtà ci vede perfettamente, il lume non si è mai spento e sa inventarsi un titolo come A Coney Island of the mind che da solo è già poesia. Del resto anche il Ferlinghetti artista visuale ha vista acuta, tanto da essere considerato elemento portante del movimento Fluxus, una derivazione del dadaismo e del surrealismo, promosso in Italia dal veronese Francesco Conz, suo amico e sodale. Come non sorridere leggendo quel Fuck art, let’s dance scritto sulla spilla appuntata alla sua giacca, proprio lui che si sente più pittore che poeta?

E così il quasi centenario Lorenzo Ferlinghetti, barba candida ma sguardo ancora fiammeggiante, confessa che ha vissuto. Intensamente, voracemente. Accogliendo con naturalezza l’offerta dei giorni e con curiosità le bizzarrie del proteiforme genere umano. Fu la smisurata ammirazione per lui a impedirmi di avvicinarlo, come colta dalla sindrome di Stendhal, mentre con il cuore a mille calcavo le assi del City Lights Bookstore a San Francisco. Lo lasciai indisturbato tra gli stretti scaffali stracolmi di volumi ed il profumo inebriante del legno e della carta. Mancavano pochi mesi allo scoccare del millennio. Ma mi riscattai tre anni dopo quando Lorenzo venne in Italia. E allora sì che, grazie alla Nanda, potei conoscerlo e chiedergli di autografarmi la Pocket Poets Anthology che acquistai quel giorno a City Lights. Riuscii così a chiudere il cerchio, ne sono felice ancora oggi e tanto basta. Per il resto le cose non dette rimarranno non dette. Quelle, sono scritte nei libri.

FRANCESCO TORRISI

25 Feb 2021 in Arte

32 commenti

Commenti

  • La scomparsa di Lorenzo Lawrence Ferlinghetti, avvenuta Lunedi scorso, mentre ha rattristato tutti coloro che l’hanno ammirato poeta, artista e pacifista, vate della controcultura americana, ci ha dato il destro di riaprire il contatto con Donata la cui cultura e sensibilità sono state assenti per troppo tempo da quasta piazza.
    Ben tornata Donata!”

  • Mi unisco al bentornata Donata, che c’è sempre tanto da fare in questa casa…
    Se dico scritto magistralmente è piaggeria? E allora non lo dico, tanto “le cose non dette rimangono non dette. Quelle sono scritte nei libri”, ma anche nei blog.
    Ovvio che noi, che siamo i fratelli minori di “quella generazione”, e abbiamo dato vita a un beat starnazzato, da baraccone, ci commuoviamo nella rievocazione. E ci indigniamo nel negazionismo.
    “Ma voi, ma che avrete mai da tirarvela tanto” mi disse un giorno un giovane amico, stimatissimo musicista e musicologo cremasco, e ancora: “Quelli che ora ascoltano Vasco Rossi, che ne sono seguaci, lo fanno allo stesso vostro titolo, sono quel che eravate voi in quegli anni” (ma lui non era certo un seguace del V.R.!)
    Ma noi non ci crediamo, restiamo marchiati a fuoco nella convinzione di aver partecipato a un momento antropologico-artistico raro, se non unico, un fermo immagine nella storia fluente.
    E restiamo affezionati ai loro costruttori, come Lorenzo. Costruttori è meglio di artefici, perché mica volevano far la storia, un pezzo chiave di cultura, solo fare delle cose!
    “A fanatico!” mi potrebbe dire qualcuno, se fossi ancora a Roma, e allora meglio non aggiungere altro, salvo chiedere in giro “ma sono davvero così snob a essere contento di aver vissuto ‘quell’epoca’, toccato con mano certe cose, parlato con certa gente che si incontrava per caso in certi posti, anche se ci si capitava da frequentatori non “addetti ai lavori”?

  • Un omaggio fatto da chi respira letteratura come l’aria, e sa scrivere bene, conosce Ferlinghetti, anche se rimane il dubbio che sia più la cornice, la simpatia per il personaggio (forse il più onesto, certo l’unico sobrio della combriccola chiamata Beat Generation), e che sia il soffio di nostalgia per gli anni perduti, volati via, a tracciare la figura umana, letteraria di Lawrence Ferlinghetti. C’è stato un tempo, che lui, oppure Corso e la sua poesia dedicata alla bomba, Kerouc che non ci metteva virgole, niente paletti grammaticali ed era tutto uno scorrere di parole, un tutto e un rutto continuato, il tascabile Oscar Mondadori con in copertina la faccia di Allen Ginsberg e la sua barba, incrocio da ribelle e da fachiro indiano, e l’inizio del suo Urlo che tanti conoscono a memoria, ma poi dopo dieci righe piantano lì di leggere il seguito…
    Ma tornando a Ferlinghetti, il fatto che sia entrato nel catalogo Adelphi, non è un caso. Conosco l’Adelphi perché l’ho frequentata, e Foa’, Calasso, Ena Marchi hanno un’idea precisa di letteratura che è lo stile, inconfondibile; la qualità ĺimpida, anche laterale, mai provinciale. Non sempre è stato così. Quando Adelphi pubblico’ “La lettera d’amore” di Cathleen Schine 1996, fu un successo strepitoso. Ena Marchi mi disse, con un filo d’amarezza, che il titolo di questo romanzo con dentro la parola “amore” forse aveva spinto le vendite, forse più che la qualita’ del testo. Questo per dire che Ferlinghetti più che essere letto è il personaggio di un’epoca. Non è poi del tutto vero che non fosse uno pratico. Quando Gregory Corso gli svaligio’ la cassa della libreria, lui fece in modo di detrarre i compensi dovuti a Corso sui libri pubblicati dalla sua casa editrice-libreria , che stampava dalla sua San Francisco, Frisco, più un capoluogo di provincia, che una vera metropoli, come lui ben sapeva.
    Complimenti a Donata. Un “pezzo” di qualità. Se trovate errori, scusate, ma scrivo con il cellulare.

  • Come tanti, da ragazzino seppi di Ferlinghetti da un volume, anzi allora erano due, che presi in prestito dalla biblioteca “L”altra America negli anni Sessanta” a cura di Fernanda, Nanda Pivano, che con il marito, l’architetto Ettore Sottsass intratteneva a casa, nel salotto, i vari personaggi di cui non dimenticava mai l’elenco, come l’elenco degli invitati a una cena di gala, anche se era gente arruffata e pure un po’ scroccona. Ma Nanda pubblico’ quei volumoni che aprirono un mondo che noi conoscevamo solo di sghimbescio grazie alla critica musicale. Infatti, fu pubblicato da Arcana editrice, specializzata in quello. Allora la letteratura beat si mischiava con il rock, il jazz strambo e free e la musica indiana. Oggi, però le traduzioni dall’americano di Nanda Pivano mi risultano tutte riviste, e giudicate da chi lavora con le traduzioni piene di pecche.

  • “il soffio di nostalgia per gli anni perduti, volati via”. Non direi: eravamoconsapevoli che stava succedendo qualcosa di nuovo, anche se attendevamo le “istruzioni per l’uso”. Peccato che bisognasse fabbricartsele da soli, e che tutti abbiano scambiato il manuale di appunti per una cravatta e un paio di pantofole.
    Intendiamoci, tutti i sopravvissuti, in tanti hanno peggiorato la sorte del vecchio Jack (Kerouac). Sai Marino, l’unica A che ti ha mangiato il cellulare! Tuttavia, dicevo, ce ne ricordiamo, non è cancellato, forse non ci abbiamo capito niente, forse per alcuni è stata solo u’occasione di scopate durante le occupazioni scolastiche, ma, se non altro, come me, CE NE RICORDIAMO CON UN SENSO DI COLPA PER IL DISIMPEGNO SUCCESVIO.

    • VISTO CHE MIMANGIO LE LETTERE ANCHE ALLA TASTIERA?

    • Ti sbagli caro Adriano, non ci fu alcun impegno nella Beat Generation. Confondi quella divisione che già faceva quasi cinquant’anni fa Allen Ginsberg. Io sono un ribelle, diceva, non un rivoluzionario. Differenza sostanziale. El a loro letteratura finì per sprofondare nel misticismo da due soldi, nell’acido lisergico, nella filosofia indiana. Solo Ferlinghetti, forse ha retto l’usura del tempo, con la sua poesia.

  • La “A” di Jack Kerouac che ho dimenticato e che mi hai giustamente ricordato è colpa mia. Henry Miller, uno scrittore venuto prima della Beat Generation, ma parallelo a quella baldoria della cultura “beat”in un certo senso liberatoria da un binario di vita influenzato dal “perbenismo”, diceva che Kerouac ha violentato la prosa a tal punto che la verginità non ci puo’ essere più. Una violenza necessaria, dice. Non la penso cosi.
    Leggere Kerouac, Ginsberg, Ferlinghetti, Corso
    l’ho fatto già da ragazzino, e in fretta mi sono distaccato da quella cultura che si impiastricciava di molte cose: voglia di libertà sessuale, pure morale (cioè vivere di espedienti, magari chiedendo i soldi alla madre tanto detestata per un viaggetto in Nepal a cercare l’illuminazione); sociale: immaginando un mondo in viaggio, un viaggio nel mondo, dimenticando che chi ha pagato l’università, che hanno smesso di frequentare, non sono stati loro, ma i genitori, il padre commesso viaggiatore che si dannava l’anima per pagare il mutuo, la scuola, eccetera). Si può scrivere libri piacevoli ed essere amabili cialtroni. Riccardo Bertoncelli, quasi cinquant’anni fa, chiamava Kerouac e Ginsberg ribelli, per distinguerli dai rivoluzionari di famiglia bene, tanto di moda sul finire degli anni ’60. Ribelli contro le convenzioni, per noia, voglia di libertà, ma senza un’idea di società. Se avessero potuto vivere di rendita, come figli di Cordero di Montezemolo, delle colline di nocciole dei Ferrero, avrebbero detto ai fratelli, le sorelle: fai tu, che io ho da fare, in giro per il mondo. Ricorda pero’ di mandarmi il bonifico a fine mese. Ti scrivero’ il recaoito, che potrà cambiare. Facile filosofeggiare cosi.

  • Francesco, Adriano, Marino: grazie. Vi saluto con questo pensiero di Lorenzo, sempre disposto a navigare alla ricerca di nuove mete e illuminazioni: “Saremo ancora / liberi come il mare / di essere niente se non / i nostri sè-ombra / tutti vagabondi di mare dopo tutto / in un tempo futuro in cui / le nazioni non esisteranno più”

  • Donata, Adriano, Marino vi leggo, consapevole della mia “ignoranza”, con curiosa attenzione.
    “Ignoranza” in massima parte legata all’….anagrafe: io mi iscrivo al PoliMi nel 61 ( 900 èh !!!) e la poesia e la letteratura di ispirazione beat in Italia si svilupperà dal 1965 ai primi anni settanta.
    Mondo Beat”, considerata la prima rivista underground italiana inizierà le pubblicazioni nel novembre 1966, mentre la “musica beat” si svilupperà in modo “popolare dalle fine degli anni 60.
    La “giustifica” mi pare quindi motivatamente appropriata!
    C’è stato poi il ’68 e, soprattutto per me, in campo musicale, quasi contemporaneamente a metà anni sessanta, due “must” musicali, pur se in “territori” diversi assai: i Beattles ed Enzo Jannacci, che hanno ….assorbito tutta la mia attenzione!
    Ergo, nella mia adolescenza è mancata quella affascinante esperienza, narrata in modo così coinvolgente da Donata, che ha innescato in modo tanto consapevolmente partecipato i commenti di Adriano e Marino.
    Non ho (avuto) l’età !!!

  • Caro Adriano, Lawrence non è Jack e neanche Allen e neppure Gregory o altri di quel giro. Anche perché a oltre cent’anni gli altri non ci sono arrivati.
    Ma non poche delle cose che ci siamo già detti tra il 21 e il 23 dicembre 2019, nei 17 commenti al tuo post “Addio Jack”, ce le potremmo ridire, più o meno, anche qui, a proposito di Lawrence Ferlinghetti.
    “Il soffio di nostalgia per gli anni perduti, volati via” non è qualcosa di strano, a una certa età. L’aumento degli amarcord è direttamente proporzionale alla diminuzione degli ormoni.
    Certo, sono molte le cose che ci ricordiamo con “un senso di colpa per il disimpegno successivo”. E va bene, siamo d’accordo. Però, a ben vedere, inter nos, visto che nessuno ci sente, potremmo qualche volta pure ammettere che, dentro di noi, ogni tanto, determinate esperienze, nostre o altrui, le abbiamo un tantino enfatizzate, gonfiate e mitizzate.
    Tra i pochi vantaggi dell’età, c’è anche quello di una certa presa di coscienza e di un maggiore equilibrio.
    Diciamocelo pure, Presidente: di alcune cose, invece che di “un senso di colpa per il disimpegno successivo”, ci ricordiamo con “un senso di liberazione per l’impegno precedente”.

  • Complimenti per il “Mondo Beat”, e tanta musica che incrociava poesia e letteratura, che passava alla radio con “Per voi giovani” con Carlo Massarini, oltre Arbore e Boncompagni e “Rolling Stone” in italiano, formato lenzuolo, e un settimanale musicale che scriveva anche di musica beat, del funerale hippie negli USA che chiudeva la faccenda, ma che a Crema non era arrivata la notizia, e a Salvirola, figurarsi, tanto che nelle campagne cremasche impazzavano i Credence C.Revival,(il nome esatto mi sfugge), e i ragazzotti arrivavano nella cittadina, tutti con i jeans pezzati, e quel rock country a manetta nella testa. La poesia beat, nelle nostre campagne non era pervenuta, allora.
    Era “Ciao 2001”, con le corrispondenze di Armando Gallo da Londra; Dario Salvatori, e Gino Castaldo (ancora oggi a Repubblica), a pubblicare i testi di Ferlinghetti, Ginsberg, Corso, oltre la pagina di Psicologia &Psicanalisi, dove si parlava di sesso, che m’interessava più che altro. Mai che diceva chiaro, l’esperto della rubrica,come ci si dovesse baciare. La mia lingua deve andare sopra o sotto? Movimento orizzontale o circolare? Questi beat, la facevano poco chiara anche loro, con tutte le loro illuminazioni, nirvana, e sesso libero. Mancava la specifica.

  • Carlo Massarini e Raffaele Cascone, mi scuso di aver dimenticato Cascone; vado a memoria, che portarono il beat musicale e poetico alla radio, in Italia. E l’ho fatto anch’io, mediocre ragazzino imbecille che baciava da schifo, ma leggevo le poesie di Ginsberg e di Ferlinghetti, Corso; che ero studente delle Segretarie, poco prima di uno stipendio da dattilografo; e leggevo alla Radio pure i poetucoli cremaschi, perché altrimenti si offendevano, a “Crema Radio 103” che trasmetteva in Via Indipendenza, di fronte alla piscina che ancora non c’era. Il programma passava più volte la settimana, e si chiamava “Variazioni sul tema”, e lo ascoltava anche il Dottor Tonghini, medico di famiglia, ed era una manna perché mi scrissero anche due ammiratrici, e con una delle due andai all’appuntamento, ma la sfiga fu che aveva il nasone pure lei, e baciarsi tra due nasi imponenti presenta, come si sa delle difficoltà che fanno passare la voglia, cosi parlammo di cose importanti, invece di andare al dunque, al sesso libero, e per riempire la noia parlammo del nuovo mondo, tanti fiori e zero cannoni, e più canne, e sbadigliammo, sul finire.

    • Hai citato un mio amico dei tempi andati: Raffaele Cascone!

  • “Tra i pochi vantaggi dell’età, c’è anche quello di una certa presa di coscienza e di un maggiore equilibrio.
    Diciamocelo pure, Presidente: di alcune cose, invece che di “un senso di colpa per il disimpegno successivo”, ci ricordiamo con “un senso di liberazione per l’impegno precedente”. PIETRO, PAROLE SANTE!

    • Grazie, Ivano. Senza nulla togliere alla beat generation, alla route 66, alla Pivano e a tutto il resto.

  • Fernanda Pivano era una donna generosa. Altruista di carattere. Seguì l’esempio del maestro Cesare Pavese che aveva portato Walt Whitman, Richard Wright, in Italia, che aveva tradotto Melville. E l’allieva di Pavese, che ricevette l’ultimo messaggio di Pavese prima che si sparasse, ci fece conoscere Edgar Lee Masters, la letteratura beat, quella che Mario Maffi provò a farla diventare branca culturale “underground”, alternativa al Sistema, mescolando esperienze diverse, che collimavano e si frequentavano come i partitini comunisti italiani e francesi. Cioè poco o per niente.
    La Pivano provo’ anche con il romanzo, ma non era nelle sue corde, provarci con la narrativa. E la sua saggistica preferisce dilungarsi sull’elenco degli ospiti, come scrisse un giovane critico e traduttore dall’americano.
    L’ho incrociata in alcune occasioni, di oersona sul palco, o inviava messaggi perché già malata, quañdo ci si batteva contro ìl Berlusconi padrone dell’informazione (Lampugnano);la breve stagione dei girotondi (Rai, Corso Sempione); Libertà e Giustizia (Modena; con Sandra Bonsanti, Stefano Rodotà). Era una donna appassionata. È la passione che manca, la sua, e non solo la sua.

  • O.K., provo a guardare “obliquo”.

    • Però il fatto che tanta di quella gente la conoscessi personalmente, e mentre ho avuto cose che loro magari avrebbero invidiato, e allora non lo sapevo che mi sarebbero toccate, e io continui a rimpiangere la loro vita dissennata, allora è un mistero.
      E un pensiero a Danilo Rustici, deceduto due giorni fa, il chtarrista degli Osanna, un gruppo che ha posto il Prog italiano a livello di quello inglese dei Genesis, loro amici. E io ero amico di Ciro Auletta, il loro tecnico del suono, e il carrozzone variopinto mi manca, anche se era un carro malato, come il fegato di Danilo, che non ha retto all’ultima ventata di covid, più o meno alla ia stessa età. Magari, se con uno strumento in mano non fossi stato così scarso, anzi, inesorabilmente ritardato, avrei potuto essere io a lasciarci le penne. Avete ragione.

  • Arrossisco al pensiero che io nel ’66 ero alle prese (musicalmente) con …..niente popò di meno che il “I° Torrazzo d’oro”, vinto nella finale sul palco del “cinema teatro nuovo” (si, dove ora c’è il Teatro di Crema) a capo di una formazione “simil Beattles” a interprtare il pezzo strumentale “Apache” ! E ci avevo già 23 anni, mica un ragazzino!!! Robe da mat….. beata, si davvero, beata incoscienza!!!!

    • Vedi Franco, vedete amici, questo era l’abito, musica, letteratura, stili di vita, ma dentro la sostanza c’era. Vedete amici, ieri sera sono andato a letto sentendomi un vecchiotto nostalgico dei verdi anni, che idealizza, un po’ come mi inssducete a pensare Ivano, Pietro.
      Ma la notte porta consiglio. Non è così. Quei tempi hanno avuto un valore storico e sociale dirompente, senza ritorno. Nel senso che dopo si potevano fare certe cose che prima nn si potevano fare, che c’è stato un reale riequilibrio di classi Marino. Poi tutto è finito in tragica farsa, tragica per i morti, per il degrado individuale. Ma è successo, convulsamente disorfdinatamente a tentoni, ma il mondo è cambiato senza ritorno. Poi quel che ne è uscito può sembrare peggiore o migliore, e ci mancherebbe, per questo anche fra noi ci sono punti di vista differenziati, ma, personalmente, ho goduto di una grande libertà di movimento, che non sarebbe stata facile de non inserita in un cinvulso movimento generale di insofferenza. Certo, poi i valori di famiglia hanno guidato i passi successivi, le medaglie per il valore in guerra di mio nonno, sono ricomparse in bacheca, e questi valori li ho trasmessi ai miei figli, Caro Pietro, ma se guardo nelle loro vite, vedo anche il frutto di quelle conquiste.
      E giuro che di “21 e il 23 dicembre 2019, nei 17 commenti al tuo post “Addio Jack”, non mi ricordavo. Sì. poterei prenderla un po’ più per le spicce allora! Brutto segno di senescanza iniziare a ripetersi…

  • Le canzonette possono fare la Storia più di chi ha accoppato il Paracelso; mentre “Mi sono innamorato di te” di Tenco ha fatto soffrire migliaia e migliaia di persone, ha fatto la storia della canzone italiana, come Caruso, come Mina, come Paolo Conte, come “Il cielo in una stanza”, chissà a quanti frega del killer del Paracelso. La canzonetta è roba seria. Anche se c’è canzonetta e canzonetta, come c’è stato in Parlamento Berlusconi e Rita Levi Montalcini, e chi non capisce la differenza, come fai a spiegarla? È vero che ognuno ha i suoi gusti, ma dire che “Vedrai vedrai” è noiosa, non provare neanche un “brividino” lungo la schiena, vuol dire avere la sensibilita’ di un paracarro. E fa niente se avro’ offeso qualcuno. E capisco gli affetti, la simpatia, ma i Genesis sono stati i Genesis, e gli Osanna gli Osanna. Poi si può pensare che le poesie di Carlo Alberto Sacchi (eccellente persona, che mi scrisse quando da piccoletto conducevo “Radio Crema 103”) sia al livello di Vittorio Sereni. Ma siamo fuori strada, caro Adriano. Poi possiamo dire di tutto e di più, anche che Crema è bellissima. E allora Firenze cos’è? Dove sono le proporzioni? Finite a ramengo.

    • Vedi Marino, leggi cosa scrivo a Franco: parlo di sostanza, non del vestito. Né degli eccessi liberatori spinti fino al degrado autodistruttivo. Parlo di riequiicbrio sociale e abbattimento di vergogne per cose assurde che improntavano le nostre vite costringendole fra paletti, di libertà di avviarsi per nuove vie, non di mode. Va bene, taccio; ripetizioni, segni di senscenza…

  • Ne approfitto qui che si parla di un poeta, Ferlinghetti, per ricordarne un’altro, morto pochi giorni fa, all’età di 95 anni, poco conosciuto in Italia, nonostante alcuni suoi libri di versi sono stati tradotti e pubblicati da Marcos y Marcos e Fazi. Si chiamava Philippe Jaccottet, era svizzero, la sua una poesia delicata e finissima, intima e fragile. Ha vissuto ed è morto in Francia, in un paesino della Drome, Grignan in collina, bello tanto, che pare Toscana di Francia.
    Jaccottet è tradotto in italiano (tradurre poesie è così difficile, e la violenza all’originale quasi inevitabile) da un’altro poeta svizzero-italiano che sa scrivere belle poesie, Fabio Pusterla.

  • A chi interessa segnalo la morte di un’altro grande poeta, più intimo, appartato, meno incorniciato dai movimenti generazionali. Parlo di Philippe Jaccottet, svizzero. Ha trascorso la sua ultima notte nella sua casa di Grignan, dipartimento della Drome, collina di Francia che pare una cartolina toscana. In Italia è stato tradotto da un’altro poeta vero, l’italosvizzero Fabio Pusterla.

  • E a parte l’obitorio straordinaria tradizione nei giornali anglosassoni, che noi mezzi latini teniamo nel cassetto e li chiamiamo “coccodrilli” il poeta-contadino lucano Rocco Scotellaro diceva che la morte non solo è necessaria, ma “l’alba è nuova” è sempre una nuova alba, un nuovo giorno, e uccellini che scappano dal nido che volano ad acchiappare il mondo e l’aria pure immobile che gira nel Cremasco. E la nuova letteratura americana ha tanti autori, poco frequentati in Italia da Peter Yates, a Ta-Nehisi Coates, da Colson Whitehead a Anne Tyler, da Richard Russo a una giovane che scrive da San Francisco, Anne Wiener. E come dice l’esperto della Juventus, Pierangelo Lodetti: dai, dai, dai, ce n’è da leggere, meglio in originale, che è faticoso, ma si guadagna in fragranza, in sapori che pian piano vengono in bocca. Una fatica utile.

  • Se un giovane studente mi dovesse chiedere qual’e’ la differenza fondamentale tra la letteratura americana, anglosassone, quindi Regno Unito incluso, e quella italiana, direi subito che noi italiani siamo e scriviamo da astemi, loro più che altro bevono e pisciano. Dan Robertson, ne “L’uomo autentico” che tanto piacque a Stephen King da farne di Robertson il suo romanziere preferito, disse appunto che in America si respira e si beve, e in vecchiaia, colpa della prostata maledetta, la cosa importante è poter pisciare da qualche parte, perché lo stimolo di urinare è ben maggiore dei fremiti, da vecchi, nel vedere una bella donna.
    Tantissima letteratura anglosassone, da Hemingway a Raymond Carver, da Russo allo scozzese Douglas Stuart autore del bellissimo “Shuggie Bain” è scritta e racconta di bevute, di alcool dovunque, in cucina, negli armadi,anche bottigliette in tasca dei giacconi.
    Quando ero ragazzo, le ragazze bevevano succhi di frutta ed erano perlopiù gelide e diffidenti come semafori d’inverno con il rosso pronto a scattare, il giallo perenne negli sguardi chiusi che aprivi a fatica. Piuttosto che bere acqua minerale, americani e inglesi bevono tazzoni di the’ nero forte e acqua calda sporca di caffè, che abbandonano ovunque, anche sulla vasca da bagno, sul water, sulla moquette, e poi accendono di nuovo il kettle, il bollitore, e se ne fanno un’altro di caffè sporco, gli altri due tazzoni non finiti sono sparsi in giro, anche nel giardino dietro casa, chiuso da assi di legno. E pisciano poi in continuazione. Spesso brilli, a portar fuori e rovesciare sacchi di cellophane pieni di lattine di birra vuote nel contenitore della spazzatura , con un fracasso come una mitragliata. L’America è questa, e il Regno Unito pure.

  • Hemingway diceva che si deve scrivere da ubriachi, ma poi correggere da sobri.

    • Vero. È proprio così. Hemingway correggeva da sobrio. Non è un dettaglio da poco.
      Raymond Carver andava a pescare da bambino all’alba con il padre che teneva la canna da pesca in mano, e aveva vicino la bottiglia di whisky.
      Da adulto, una domenica mattina che si era svegliato dopo una sbronza, Raymond Carver si attacco’ di nuovo alla bottiglia, era in uno stato depressivo tremendo, quando suonò il citofono. Appoggio’ la bottiglia sul tavolo e si diresse bestemmiando verso la finestra che scavalcando il piccolo giardino, vedeva il cancello d’entrata. La moglie, la poetessaTess Callagher, non era lei al cancello. Lo aveva lasciato da tempo. Carver, sopportando una inutile illusione, conciato come un letto sfatto, disse: chi è? Aveva visto che era maschio, il rompicoglioni della domenica mattina. Era un venditore in giacca e cravatta di lucidatrici Hoover, e Carver che stava per mandarlo a quel paese, forse confuso, e ancora ubriaco finì per aprire il cancello. Che strane le decisioni, oensi una cisa e ne fai un’altra. Poi, allungato sul divano, osservo’ il venditore che gli fece vedere il funzionamento della lucidatrice, con Carver che alzò le ciabatte, mentre il venditore gli passava sotto la Hoover e decantava l’efficienza dell’attrezzo. Finirono per chiacchierare molto, per raccontarsi cise inaspettate e profonde, e Carver raccontò quell’incontro memorabile in un racconto magistrale, così bello, ricco di umanità che non l’ho piu’ dimenticato. E che avro’ sicuramente modificato, a memoria. Mi hanno sempre incuriosito i venditori di lucidatrici che alle otto di sera suonano a casa delle persone. Ho addirittura sognato che sarebbe diventato il mio mestiere. La faccenda mi preoccupava. Non volevo diventare un venditore di lucidatrici. Pensai: è un segno che succederà? Ogni azienda che falliva (tre sono fallite, dove lavoravo, tre su sette), dovevo ricercare di nuovo un lavoro e pensavo: non dovrò vendere le lucidatrici a Offanengo, a Roncadelle, mentre stanno mangiando la minestra? Non è accaduto, per fortuna. E dalla felicità rileggo quel racconto di Carver, spesso. Una sorta di breviario. Mi ha convinto ancora di piu’ a non bere mai troppo.

  • Una sera, l’anima del vino cantava nelle bottiglie:

    «Uomo, verso di te io lancio, o caro diseredato,

    Da sotto la mia prigione di vetro e le mie chiusure vermiglie,

    Un canto pieno di luce e fraternità!

    So bene, sulla collina in fiamme,

    Quanta fatica ci vuole, quanto sudore e quanto sole cocente

    Per generare la mia vita e per donarmi un’anima;

    Ma non sarò né ingrato né malevolo,

    Perchè provo una gioia immensa quando scendo

    Nella gola d’un uomo sfinito dai suoi lavori,

    E il suo caldo petto diviene una dolce tomba

    Dove mi trovo assai meglio che nelle mie fredde cantine.

    Non odi risuonare i ritornelli domenicali

    E la speranza che bisbiglia nel mio seno palpitante?

    I gomiti sul tavolo e rimboccando le tue maniche,

    Tu mi glorificherai e sarai contento;

    Io accenderò gli occhi della tua donna affascinata;

    A tuo figlio ridarò la sua forza e i suoi colori

    E sarò per questo fragile atleta della vita

    L’olio che rassoda i muscoli dei lottatori.

    In te io scenderò, vegetale ambrosia,

    Grano prezioso gettato dall’eterno Seminatore,

    Perchè dal nostro amore nasca la poesia

    Che spunterà verso Dio come un raro fiore!»

    Charles Baudelaire

  • Ho dimenticato il titolo: L’anima del vino. E questa non è la traduzione che preferisco. Raboni per esempio invece di Dio traduce l’Eterno.

  • Raboni, ancora, piuttosto che “chiusure vermiglie” sceglie Ceralacca. In questo caso preferisco “chiusure vermiglie”.

Scrivi qui il commento

Commentare è libero (non serve registrarsi)

Iscriviti alla newsletter e rimani aggiornato sui nostri contenuti